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Basilico, prezzemolo e… peperoncino!

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Il tavolo degli impegni del prossimo governo è già apparecchiato con tanto di menù. “Si può aggiungere un po’ di basilico se vince il centro sinistra, un po’ di prezzemolo se vince il centro destra”. Così parlò non Zarathustra, ma Eugenio Scalfari in compagnia di Paolo Mieli convinto anche lui della necessità della “dieta” proposta dal fondatore di Repubblica. I due, ospiti della Gruber, erano divisi solo sulla scelta del cuoco. La metafora non inganni: siamo lontani anni luce dalla cuoca capo dello Stato di leniniana memoria. Qui si tratta di chef come Mario Monti (“chi meglio di lui visto che bisogna rispettare la sua agenda?”) o di giovani aspiranti tali che ripropongono gli stessi ingredienti liberisti serviti con soave e “giovanile” creatività.

Per quanto apprezzi i profumi e le colture (oltre che le culture) mediterranee che Jean Claude Izzo ci ha fatto amare in questi anni, dubito che aggiungendo un po’ di basilico riusciremo a convincere i giovani inoccupati, i lavoratori espulsi dalle fabbriche, gli esodati e i precari a votare per il centro sinistra. E temo che le destre non si limiteranno al prezzemolo, ma condiranno la loro proposta politica con il peperoncino del populismo antieuropeo e della xenofobia nazionalistica. Tecnocrazia e populismo, si sa, si autoalimentano in maniera complementare svuotando di senso la democrazia reale. E se la politica smette di essere scelta, opzione alternativa, è destinata a perire essa stessa. La tragedia greca è sotto gli occhi di tutti. L’accettazione passiva ed indistinta del memorandum di lacrime e sangue ha distrutto il Pasok e ha portato al governo i veri responsabili del disastro economico e finanziario, la destra di Samaras. I cultori dell’ineluttabilità delle politiche restrittive e recessive, per una sorta di eterogenesi dei fini, sembrano dislocarsi anche sul fronte sinistro più lontano. Le critiche ad una possibile alternativa di governo, culturalmente, ambientalmente e socialmente qualificata vengono anche da chi colloca la rifondazione della sinistra in un tempo molto più lontano. Tempi migliori che mettono al riparo la palingenesi della sinistra dalle angustie di questa drammatica fase sociale, dalle indicibili sofferenze della gran parte del nostro popolo. Un po’ come i monaci amanuensi di tanti secoli fa con le sacre scritture.

La sinistra che verrà sarà quella che avrà attraversato questa fase indicando una prospettiva per l’Italia e per l’Europa. Se si mimetizza con il liberismo o si sottrae dal governo complesso e drammatico di questa crisi, semplicemente scompare per la sua irrilevanza. Le politiche di rigore stanno aumentando i fattori di diseguaglianza nel nostro paese, e in Europa stanno facendo aumentare le distanze tra paesi forti e quelli dell’area mediterranea. Il nostro debito è cresciuto in termini assoluti e relativi. La situazione sociale ed ambientale è già al degrado. Lo strapotere dei mercati finanziari non trova ostacoli se non in alcuni interventi della Bce che suppliscono quello di autorità politiche dell’Unione. Ma sono interventi largamente insufficienti, non risolutivi e molto onerosi per gli Stati che dovessero chiedere un qualche aiuto finanziario. Stefano Fassina ha spiegato con condivisibili ragioni economiche e sociali il perché l’Italia non debba far ricorso al fondo salva-Stati. Ad esse aggiungerei ragioni politiche e di tenuta democratica. I vincoli imposti renderebbero impraticabili le politiche di alternativa economica e di sviluppo sostenibile. La crisi finanziaria è stata artificialmente trasformata in crisi del debito cogliendo l’occasione per una ristrutturazione e una diversa gerarchia dei poteri.

Questa discussione è rimossa dalla dimensione pubblica ed è occupata da una sorta di nuovo pensiero unico che trova, ahimè, anche sponde nel centro sinistra. Eppure in Europa le cose stanno diversamente. Non mi riferisco solo alla esperienza francese, pur tra di difficoltà visti gli attuali rapporti di forza nell’Unione, ma anche al dibattito che si è aperto in Germania. Il filosofo Jurgen Habermas, in collaborazione con il suo collega Nida Bumelin e l’economista Peter Bofinger, su sollecitazione del segretario del partito socialdemocratico Sigmar Gabriel, ha offerto un contributo programmatico che parte da un’aspra critica del comportamento del governo tedesco nella gestione della crisi europea.

Questa critica parla esplicitamente di superare il nazionalismo, la subalternità ai mercati finanziari e chiede di abbandonare la “democrazia di facciata” per affrontare il tema di uno sviluppo che valorizzi e rinnovi diritti sociali e civili in grado di ricostruire una nuova identità europea. Un “New Deal” continentale in cui la valorizzazione dell’ambiente e del lavoro siano i cardini del nuovo legame sociale e culturale. Si può discutere di questo anche in Italia abbandonando provincialismi e bassezze? Le primarie di coalizione possono diventare il racconto di un progetto per il paese reale con i suoi conflitti.

Oggi rischiano di essere solo un mero posizionamento autoreferenziale nel gruppo dirigente del PD, tra candidature plurime e veti, veri o presunti tali, nei confronti della sinistra che fa riferimento a Vendola. Un gioco di rimbalzo che agita il palazzo e non incrocia sentimenti e bisogni della società. Fuori dal reality il lavoro, per poter essere visto, o si inabissa nelle viscere della terra o si erge su pennoni alti decine di metri. Questo Governo non vede i mille conflitti di superficie, non disegna una politica industriale e sente i diritti dei lavoratori, in ossequio delle forme più classiche del pensiero liberista, come un impaccio per lo sviluppo. Noi dobbiamo, ora, non rinviando ad un improbabile domani, provare a costruire l’alternativa e a dare forma ad una idea di futuro. Come sanno bene Scalfari e Mieli la tradizione culinaria italiana è ricca e varia. E’ giunta l’ora di cambiare il menù e i cuochi.

Franco Giordano
Fonte: l’unità

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