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La bolla formativa è esplosa

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Penultimi nella classifica Ocse per la spesa pubblica nell’istruzione (il 4,7 per cento del Pil, contro una media del 5,8). I docenti della scuola (età media 50 anni) che percepiscono un reddito decisamente più basso rispetto ad altri lavoratori con un’istruzione universitaria.

Nel rapporto Ocse Education at a glance presentato a Parigi l’Italia si piazza al 24° posto (su 27 paesi) per gli insegnanti della primaria, al 23° per le superiori. La  percentuale dei suoi laureati  resta tra le più basse dell’area che riunisce i paesi più industrializzati: tra i 25 e i 64 anni sono il 15 per cento, contro una media Ocse del 31 per cento.
Tutto questo mentre la disoccupazione aumenta significativamente tra i laureati (5,6 per cento), ma non tra i diplomati. Nel paese del precariato di massa, e dei redditi sotto della soglia di povertà, l’Ocse conferma che nessuna istituzione, tanto meno il mercato del lavoro, garantiscono ai laureati una retribuzione dignitosa o un lavoro adeguato alla loro preparazione. È il ritratto più sincero che raramente è capitato di leggere nelle dichiarazioni dei governi in questa legislatura, per non parlare di quelle precendenti. Quella dell’esplosione della bolla formativa è una storia recente, che si può tradurre in una sola parola: fallimento.
La favola del «3+2»

Fallimento, ad esempio, della riforma Berlinguer-Zecchino del 2000 che varò il cosiddetto «3+2», tra le mirabolanti promesse della «società della conoscenza» in cui il centro-sinistra prodigano credeva fermamente.

«Un’occasione mancata – l’hanno definita i tecnici Ocse – colpa anche della contrazione dei posti nella dirigenza delle pubbliche amministrazioni, che erano in passato lo sbocco privilegiato per i vostri laureati, e del boom di offerta di corsi i cui profili non trovano corrispondenza sul mercato».

Questo surplus di offerta da ridimensionare, per non creare «illusioni» tra i figli del ceto medio in crisi e senza più identità sociale, costituì l’alibi della riforma Gelmini che tagliò 350 corsi di laurea, sommergendo di discredito la classe accademica che aveva moltiplicato i pani (le cattedre) e i pesci (i concorsi). Ma ha rafforzato l’idea che per avere «successo» la formazione superiore dev’essere pagata cara, stringendo le maglie del numero chiuso (il 54 per cento dei corsi di laurea), senza per questo risolvere il problema dell’accesso alle professioni. Per fare un esempio, un terzo degli oltre 10 mila aspiranti medici che hanno superato il test di ammissione della scorsa settimana non potrà accedere alla specializzazione. E, aggiunge l’Ocse, quando riescono a trovare un posto di lavoro i laureati tra i 25 e i 34 anni guadagnano solo il 9 per cento in più dei diplomati contro il 37 per cento della media Ocse.

Saperi altamente volatili
Ma questi numeri non restituiscono la disillusione e la rabbia che serpeggiano tra chi ha frequentato negli ultimi anni un corso di studi per ritrovarsi in mano una laurea, una specializzazione o un’abilitazione (ad esempio quella delle Ssiss) che, oltre a garantire solo un impiego precario, non valgono nulla. È questa la storia dei 20mila abilitati Ssiss che saranno obbligati a partecipare al «concorsone» per la scuola che sarà bandito il prossimo 24 settembre.

Dovranno cioè ripetere una prova che hanno già sostenuto, perché il loro esame di stato non ha alcun valore ahli occhi delle istituzioni. per ripetere l’esame e verifiche nella speranza di aspirare a un posto. È la situazione in cui si trovano oggi i 20 mila abilitati costretti a partecipare al «concorsone» della scuola che verrà bandito il prossimo 24 settembre.

Il crack dell’università

Diversamente dalla bolla formativa che da tempo è esplosa in Giappone, o negli Stati Uniti, quella italiana non è basata sul debito di 24 mila dollari in media che gli studenti contraggono con lo Stato per pagarsi la laurea, bensì sulla produzione di un esiguo numero di laureati che hanno titoli di studio e competenze che hanno un valore sempre più volatile. Dovrebbe essere letta in questa cornice l’emersione del fenomeno dei giovani «Neet», il 23 per cento dei ragazzi tra i 15 e i 29 anni che «non studiano, né lavorano».
Questa dizione, usata anche dall’Ocse, potrebbe essere fuorviante se non venisse adeguatamente contestualizzata. Buona parte di questi ragazzi hanno rinunciato a iscriversi all’università. Almalaurea ha calcolato che dall’inizio degli anni Duemila le iscrizioni calano al ritmo di 43 mila all’anno. Senza contare che molti di loro passano da un lavoro in nero ad uno precario. Resta sempre difficile definire statisticamente una categoria che rifiuta di continuare gli studi perché, semplicemente, non servono. È questo il punto di non ritorno dove è giunto il fallimento dell’istruzione, in Italia.
“Licealizzazione della società”?
E’ sull’onda del fallimento di un sistema – e delle “riforme” che hanno cercato di “riformarlo” – che si è prodotta la percezione angosciosa che il sapere non produce occupazione, semmai disperazione per una vita sprecata, che ha mancato tutti i suoi obiettivi.
Già nei primi anni di questa legislatura, quando venne ad esempio presentato l’ennesimo e coreografico “Piano di azione per l’occupabilità dei giovani” dal governo Berlusconi (che trova un analogo pressoché perfetto con il “piano giovani” Monti-Fornero, il fallimento del sistema è stato trasformato nella colpa di chi ha speso anni a studiare. Ma di quale colpa stiamo parlando? Del tradizionale atteggiamento – si ripete dall’alto: gli esperti, i governi, i ministri più o meno tecnici – che rende i laureati, e persino i diplomati (al liceo) troppo orgogliosi per accettare qualsiasi lavoro.  E’ stato così riscoperto, e approvato, l’apprendistato a 15 anni, si dice che sia una soluzione per rimediare alla crisi occupazionale. Pochi soldi, maledetti, e subito.
“Paghiamo la licealizzazione della nostra società” ha detto recentemente Giorgio Guerrini, presidente di Confartigianato quando ha denunciato che, nel 2011, 45 mila posti tra i mestieri artigiani “ad alta intensità manuale” sono rimasti scoperti per mancanza di candidati. Stesso discorso quando, sempre nel 2011, si è scoperto che i profili più ricercati tra i “giovani” nel 2011 sono i cuochi, camerieri e altre professioni dei servizi turistici (+23,4%).
Insomma, i “nostri” ragazzi continuano a studiare, non accettano questi “lavori umili” (sempre che si tratti di “lavori umili”). Duplice risultato: si delegittima così un sistema della formazione fallito per incapacità dei governi e si sposta la responsabilità sui soggetti che non accettano le possibilità offerte dalla società.
Uno sguardo più onesto sui dati rivela che la disoccupazione, o la vera e propria inoccupazione, coinvolge tanto i laureati che i diplomati. Entrambi hanno perso la speranza in una retribuzione dignitosa, ed è in corso un disperato – ma concreto – tentativo di riconversione. Su questo il rapporto dell’Ocse non dice nulla di nuovo. Sempre Almalaurea, nel suo XIII rapporto, aveva già rilevato l’aumento della disoccupazione fra i laureati triennali (dal 15 al 16%), tra gli specialistici biennali (dal 16 al 18%) e fra i laureati nei settori forti come ingegneria (dal 14 al 16,5%). Ma il lavoro dell’Ocse è importante perché è la prima rilevazione complessiva che riporta gli effetti del taglio di 8,5 miliardi di euro alla scuola e di 1,4 miliardi all’università. Una realtà che veniva denunciata ancora ieri dall’Unione degli studenti che tornerà in piazza il prossimo 12 ottobre.
Roberto Ciccarelli
fonte: http://furiacervelli.blogspot.it

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