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Sanità: diagnosi approssimativa, terapie pericolose

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Tre interventi del Presidente del Consiglio in una settimana sulla sanità (sul rischio di non riuscire più a sostenere il Servizio sanitario italiano se non si trovano nuovi finanziamenti..) non sono pochi. Il povero ministro Balduzzi è stato un po’ annichilito, ma in un certo senso dobbiamo ringraziare Monti perché riporta sulla prima linea della politica un settore fondamentale della nostra vita. E ci costringe, anche in prospettiva di possibili cambiamenti di governo, a precisare caratteri fondanti del nuovo welfare che vogliamo, con al centro, appunto, la difesa della salute (insieme ad una previdenza più umana dell’attuale..).

Affermazioni generiche quali “il sistema potrebbe non essere garantito, esso è chiamato a riflessioni, rimodulazioni e adattamenti” possono sortire, com’è avvenuto per la “insostenibilità” del sistema pensionistico, provvedimenti iniqui e dannosi. Anche SEL è chiamata dunque ad approfondire e a definire, insieme a tutto il centro sinistra ed in stretto rapporto con forze sociali e culturali, punti di vista e proposte di azione concrete.

Noi non crediamo, come ha detto la Bindi, che il capo del governo “sia caduto in un luogo comune”. Ha recitato il titolo di una visione delle cose caratteristica della sua parte, la destra perbene e tecnocratica. Diversi esponenti politici della destra l’hanno ripreso in questi giorni ed hanno ribadito la linea che era sottotraccia anchenel pasticciato governo Berlusconi. Una linea che deriva da luoghi familiari del premier, come l’Università Bocconi che dagli anni 90 ha costruito una delle più potenti sovrastrutture ideologiche in questo campo. L’idea cioè della necessità di assicurazioni sanitarie obbligatorie (o altre forme integrative dell’assistenza pubblica) per i più abbienti in modo che si autosostengano, con il mantenimento, per chi non se lo può permettere, dell’assistenza sanitaria gratuita (e di anno in anno più indebolita, aggiungiamo noi).

L’avevamo detto un anno fa: assumere il punto di vista del suo modo di finanziamento (tener ferma o recedere dalla base fondamentale della fiscalità generale progressiva secondo il reddito) vuol dire dare un futuro o no alla più grande conquista degli ultimi decenni nel nostro paese.

I parametri principali del livello e della dinamica della spesa sanitaria nel nostro paese forniti da soggetti autorevoli (costi in valore assoluto, i 113 miliardi del 2011, spesa procapite, alla spesa in rapporto al PIL …) sono ben conosciuti e risultano in linea – se non migliori – con quelli dei principali paesi dell’Unione Europea. Certo, in questi giorni sono uscite anche stime di centri studi che prevedono aumenti importanti della spesa …nel 2050! L’aumento degli indici di invecchiamento sono spesso alla base di visioni “catastrofiche” della spesa futura; ma a questo livello non si considerano abbastanza i profili emergenti di “sana longevità”, insieme alle possibilità, sperimentata in anche in parti del nostro pase, di sviluppo di una sanità territoriale che contrasta la cronicità.

Sentiamo sopra di noi la cappa ideologica dell’imperativo dell’abbattimento “veloce” del debito e della spirale infinita rigore-recessione-rigore. La verità dei fatti è che oggi assistiamo a potenti tagli del finanziamento del sistema (27 miliardi in quattro anni, con una perfetta continuità tra Berlusconi-Tremonti e Monti) che riducono concretamente i servizi essenziali ancor prima di mettere mano formalmente ai LEA, i cosiddetti livelli essenziali di assistenza (che effettivamente rimangono dal 2001 in un limbo). Già oggi si stima che il 55% delle visite ambulatoriali è pagata privatamente. Ma il messaggio spicciolo che sentiamo è questo: i soldi sono finiti ed allora devono pagare i cittadini; il vero luogo comune più stantio che sentiamo è: non possiamo dare più tutto a tutti.

Bersani dice: «Per reggere i sistemi di welfare, parlo della sanità per esempio, inevitabilmente viene il momento in cui, almeno per certe parti di quel servizio, ci vuole una contribuzione diretta anche per regolare il flusso delle spese». Noi pensiamo che i servizi integrativi possono avere una funzione importante se interessano bisogni attualmente non coperti dal servizio sanitario pubblico (dalla non autosufficienza, alle cura dei denti o per la vista), ma una sanità privata per i livelli essenziali, accompagnata da forti prelievi con i ticket (ancorché modulati per reddito) non farebbe altro che aumentare la spesa e creare servizi di serie A e B per i cittadini, preludio, come avviene in paesi come l’Inghilterra o la Spagna, di una rottura del sistema sanitario pubblico e universale. A ciò si accompagna l’oggettiva forte pressione di interessi quali quelli dei fondi privati o anche “privato sociale” come alcune parti del mondo coop.

I livelli essenziali di assistenza “reali” sono molto variabili tra le regioni. Ad es. i primi risultati del Piano Nazionale di Valutazione degli Esiti che riguardano tanti parametri (dalla mortalità per certi tipi di intervento, ai tempi delle prestazioni…) danno un’idea abbastanza precisa del lavoro da fare sul piano dell’efficacia e della qualità delle cure nelle diverse aree del paese. Dobbiamo dire che oggi la sanità è troppo diseguale, sia in termini di prestazioni che di costi delle stesse.

Inoltre, il fatto che i servizi sanitari debbano produrre (o contribuire a produrre) anche salute (oltre che assistenza “risparmiosa”) pare un aspetto dimenticato; affermazioni semplici, quali “le malattie si possono ridurre” sembrano sparite dal novero del pensabile. Da qui la marginalizzazione della prevenzione collettiva.

Tuttavia il sistema ha bisogno di forti innovazioni, anche e soprattutto sul versante della spesa corrente (e non sugli investimenti, come, ad es., sul bisogno di un piano straordinario di messa in sicurezza degli ospedali…). Illegalità e sprechi sono punti fondamentali sui quali intervenire. Vi è ormai molto materiale che ci indica quali sono le strade di ristrutturazione e risparmio virtuoso della spesa: da un’adeguata messa in rete degli ospedali, al potenziamento della sanità territoriale, acquisti centralizzati per ridurre i costi dei contratti pubblici di fornitura, ecc. Tra queste misure vi è anche un freno al diffondersi di mutue integrative i cui risvolti defiscalizzanti riducono le risorse a disposizione del sistema.

Per la prevenzione noi crediamo sia giunto il momento di un suo rilancio che dia non solo certezza di risorse ed una missione rinsaldata, ma anche innovazione in termini di superamento della fratture con le politiche e le strutture di tutela ambientale.

Anche l’assetto complessivo delle istituzioni sanitarie, in una visione di medio periodo, dovrebbe essere rivisto e semplificato, con uno sguardo critico su certi eccessi di federalismo di questi anni.

Infine, volentieri ci associamo ad una considerazione importante di Nerina Dirindin: “La prima priorità riguarda la crescente diffusa demotivazione degli operatori, sui quali ricadono condizioni di lavoro sempre più difficili e sui quali grava la “responsabilità” di negare o erogare l’assistenza alle persone che accedono ai servizi. Un sistema ad alta intensità di lavoro non può prescindere da una politica del personale che vada oltre il mero ridimensionamento delle dotazioni organiche (peraltro in alcuni casi opportuno). Promuovere un coinvolgimento responsabile degli operatori è indispensabile per generare contemporaneamente più efficienza e più qualità, soprattutto in una fase di grandi ristrettezze economiche”. (N. Dirindin – La tutela della salute – www.lavoce.info).

Noi non accettiamo in nessun caso l’idea di mettere in discussione il Servizio sanitario universale, ma non siamo per una sua difesa generica; noi vogliamo affermare una nuova visione del sistema incentrata sul risparmio delle prestazioni inutili a fronte della certezza di quelle utili (appropriate e necessarie). Per tutti, ricchi e poveri.

Betty Leone, Mauro Valiani

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