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Venerdì, 19 settembre 2014

Articolo 18: come in un gioco dell’oca

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Torna l’ossessione dell’articolo 18, che il premier italiano brandisce come strumento di rassicurazione nei confronti di chi dall’Europa, a cominciare dal governatore della Bce Mario Draghi, gli ingiunge di far presto con le riforme, quelle vere però, quelle che davvero contano per Bruxelles.

Fino a oggi, fanno intendere da là al premier italiano, lui ha giocato a briscola, si è baloccato, ha perso tempo. Siamo al redde rationem, insomma. E poiché l’articolo 18 è il simbolo di qualcosa, allude a qualcosa è carico di qualcosa che alle élites europee, ammalate di neo liberismo, proprio non va giù, lo si agita da parte del premier italiano come un capro espiatorio finalmente da sacrificare. Per andare oltre, lui è ansioso di andare oltre. Ma non è l’articolo che dà fastidio in Europa, è quel che resta sulla sua scia, come fantasma di un’epoca che è meglio cancellare proprio dalla memoria. Perché finché ne rimane traccia niente i Italia avviene seconda una tabella di marcia che Bruxelles vuole velocizzare e secondo semantiche adeguate. Che, per esempio, non prevedano il concetto di “diritti del lavoro”.

E poiché nell’epoca penitenziale e infelice in cui la crisi ci ha fatto precipitare, la cerimonie sacrificali servono a ristabilire il simbolico della ripartenza secondo le nuove regole e soprattutto a riassettare le cose secondo queste regole, il premier italiano, esperto di comunicazione, si gioca la carta del messaggio simbolico.

L’articolo 18 non è sotto tiro per quel che ancora vale oggi, pressoché niente dal punto di vista dell’effettiva tutela di chi lavora con una certa stabilità, non parliamo poi dell’immenso serbatoio del precariato giovanile e dell’esercito sconfinato di chi proprio non lavora o perde il lavoro e via, tanti saluti. E che dire dell’interesse delle imprese per il problema? Soltanto il 2,4% (stando ai dati della Cgia di Mestre) ha interesse per la questione, visto che tutto il resto dell’imprenditoria italiana ha meno di quindici lavoratori. E Giuseppe Bertolussi, che della Cgia è segretario, consiglia di evitare lo scontro sociale sull’articolo 18 e, invece, “rilanciare gli investimenti, i consumi interni e combattere la deflazione, perché solo così saremo in grado di creare le condizioni per rilanciare l’occupazione e riprendere il sentiero della crescita”.

L’articolo è sotto tiro per la storia sociale e giuridica che su di esso si è addensata, perché parla di rapporti sociali e di diritti che oggi fanno a pugni con la ragione neo-liberista a cui l’Europa si ispira, ricorda un’epoca da cancellare, in cui la forbice salariale tra l’alto e il basso, tra i manager d’impresa e gli operai di linea era più o meno di uno a venti a fronte dell’uno a 200 di oggi, ha a che fare con una Costituzione che era fondata sul lavoro e adesso è soltanto un ingombro di cui tutti si vogliono liberare.

Rilanciare il tema per il premier e il suo governo, pressati anche da Visco e da Napolitano, significa dire: ok, faremo tutto quello che è nelle nostre mani per disarticolare, frammentare, fluidificare decostituzionalizzare ancora di più di quanto già non sia il lavoro. Perché l’unica cosa che si chiede veramente a Renzi è questa, insieme a un taglio robusto e strutturale della spesa pubblica destinata allo stato sociale. Ma magari, visto che siamo dopo tutto nell’Italia delle consorterie, verranno tagliate le spese sociali e conservate invece molte nicchie clientelari di spese inutili perché il consenso all’italiana ha i suoi costi.

Così il premier italiano dice sì, sperando di guadagnar tempo e depistando sull’articolo 18 il dibattito dalle misure concrete che dovrebbero far ripartire la sempre più fantomatica ripresa e la sempre più fantasmatica occupazione.

Bisognerebbe che qualcuno rovesciasse il tavolo, dicesse: allora ok, parliamo dell’articolo 18 ma contestualmente alle misure concrete che devono partire subito per chi non ha il lavoro, per i giovani soprattutto, e per chi lo perde e non sa dove sbattere la testa; e immaginiamo e costruiamo una nuova modalità di tutela e aiuto della vita materiale di donne e uomini, una nuova tavola dei diritti, una nuova idea della dignità del lavoro.

Il reddito garantito è oggi il grande tema da contrapporre alla dispersione di quel resta – niente – dei diritti del lavoro. Reddito garantito non nelle forme del sussidio inadeguato a cui pensa Renzi, da costruire non si sa bene come, con gli scarti dei conti pubblici e mentre si cancellano le casse integrazione; reddito garantito come strumento centrale della sfida della ripresa, mettendolo anche al centro di un’iniziativa italiana in Europa. A che serve questa benedetta Presidenza di cui Renzi e la sua magica squadra ci hanno riempito la testa durante le europee, al punto che sembrava che tutto si sarebbe risolto? Non è riuscito invece neanche a far valere quel 40 e passa per cento con cui è arrivato in Europa. La nuova Commissione europea parla di questo, parla di una sconfitta di tutte le sinistre europee e soprattutto di Renzi.

Le soluzioni di reddito minimo adottate in altri Paesi europei svelano oggi la loro pochezza e dunque la loro inadeguatezza per ridare prospettiva e futuro alle nuove generazioni. Rifare il punto su questo tema potrebbe essere un obiettivo italiano, per affrontare subito i problemi nazionali e anche parlare autorevolmente a tutta l’Europa. Ma siccome Renzi non è capace di farsi valere in Europa, nonostante il suo 40 e passa per cento e nonostante la Presidenza italiana, lui vuole almeno un feticcio da agitare e guadagnare tempo. Occupare i mille giorni tanto per occuparli. Oppure andare a nuove elezioni, agitando il mantra che gli è stato impedito di fare quello che lui avrebbe fatto per salvare l’Italia. L’abbiamo già sentito ma tutto si ripete, quando la storia si avvita nella crisi.

L’articolo 18 è un feticcio da abbattere da parte di chi ama le ricette neo liberiste ma è anche, va detto, un feticcio agitato peridicamente come bandiera identitaria. E’ la parte in commedia giocata da un sindacato e da una sinistra che hanno lasciato che le cose andassero come andavano, che non si sono misurati a tempo debito con i cambiamenti di fondo del ciclo produttivo, con la globalizzazione e quel che significava per la liberà d’impresa rispetto ai vincoli della fase precedente, con la vittoria del neo liberismo che affascinava sempre più in Paesi chiave varie forze di sinistra. E infine con la crisi devastante che viviamo. Perché, anche in Italia, parti preponderanti della sinistra hanno accettato la ragione neo liberista del mondo identificandola come svolta salvifica della modernità e della modernizzazione.

Questo per dire che l’articolo 18 è morto storicamente e altro deve essere intrapreso: altre strade, lotte, mobilitazioni vertenze accordi nelle sede istituzionali mediazioni tra le parti, e tutto il necessario deve essere tentato, per via alternativa, per rimettere al centro, in stretta connessione, la questione dei diritti sociali e quella della ripresa economica: reddito, lavoro e sua qualità, occupazione.

Ma per come sono messe le cose, non si può certo lasciare che l’articolo venga cancellato per decreto, con atto d’autorità, con decisionismo sovrano o come fosse un gioco di società. Perché è ancora una potente cartina di tornasole che non offre scampo alle balle. A patto ovviamente che ci sia qualcuno che non si accontenta di agitarlo come bandierina identitaria ma se ne serva per costruire un nuovo spazio politico di proposta e iniziativa.

 

Commenti

  • http://detestor.blog.com/ Detestor

    “L’articolo 18 non è sotto tiro per quel che ancora vale oggi, pressoché niente dal punto di vista dell’effettiva tutela di chi lavora con una certa stabilità”
    Raccontalo ai 3 operai Fiat licenziati perché iscritti alla FIOM e reintegrati proprio in virtù dell’art.18!!
    La maggioranza dei lavoratori italiani attualmente lavora in aziende con più di 15 dipendenti, quindi l’art. 18 è importante eccome, altro che feticcio.
    Quale abolizione, va piuttosto ripristinato a com’era prima dello scempio Fornero (fra l’altro, questo era nelle promesse di Bersani, per giustificare il fatto che il suo partito dava carta bianca al ministro) e va esteso alle aziende che hanno meno di 15 dipendenti, così siamo tutti uguali ed è finito l’apartheid di cui va cianciando Renzi.

  • Dario

    Guarda, io sono assolutamente convinto che per una questione di principio e di giustizia, vada tutelato e ripristinato. Ma, pur non essendo informatissimo, mi sembra che siano tutti d’accordo a dire che si applica a “pochi”. Teoricamente, 9 milioni di lavoratori, di fatto molti, molti meno.

  • http://detestor.blog.com/ Detestor

    Dall’articolo su questo stesso sito dal titolo “Senato, Sel e M5S abbandonano commissione Lavoro: governo vuole delega in bianco. Cgia: poche le imprese interessate all’art. 18” (il link non posso metterlo perché il sito non accetta il commento):
    “Intanto una ricerca della Cgia ci dice che sono poche le aziende sottoposte alla disciplina all’articolo 18, ma oltre la metà dei lavoratori dipendenti italiani del settore privato sono tutelati da questo istituto.”
    E in ogni caso, come dicevo, è giusto applicarlo a tutti, non solo alle aziende con più di 15 dipendenti, invece vogliono smantellarlo anche a quelli che già ce l’hanno, un controsenso.