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Lunedì, 27 giugno 2016

Brexit, c’è bisogno di di un’altra Europa

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Scriviamo a distanza di sicurezza dalla notte shock: eventi complessi hanno bisogno di pensieri articolati, non di slogan o banalizzazioni, cui inevitabilmente rischia di piegarsi ogni commento a caldo.

Il fatto stesso che la patria di David Ricardo rinunci a una porzione di liberismo dà la misura della portata storica dell’evento.

La Gran Bretagna lo fa barattando la propria presenza in Europa con la speranza di riequilibrare la bilancia commerciale con l’estero (negli ultimi anni in significativo deficit) e porre, probabilmente attraverso misure protezionistiche, un freno all’insopportabile pretesa tedesca di mantenere senza alcun limite la leadership di esportatore netto a discapito degli altri Paesi dell’Unione. È questa la ragione economica principale che giustifica razionalmente, dal punto di vista britannico, l’esito del referendum: non c’entrano in questo caso i lacci della politica monetaria di Francoforte, che in molti hanno chiamato in causa, non c’entrano nulla neppure le svalutazioni competitive. Non c’entrano, insomma, tutte quelle leve di politica economica che la Gran Bretagna poteva già esercitare e che ha, con pieno diritto, esercitato negli anni della crisi, spesso in maniera più decisa rispetto alla la BCE.

Se vogliamo capire il voto e guardiamo l’Unione Europea dal punto di vista della Gran Bretagna, non dobbiamo volgere lo sguardo alle politiche di austerità comunitarie.

Ciò che ha fallito – e che ha condotto alla Brexit – sono prima di ogni altra cosa le leggi del mercato libero. Non è un caso che siano i centri produttivi del Paese ad avere votato massicciamente a favore dell’uscita. Il liberismo su cui si fonda il mercato interno europeo ha cioè trasferito senza filtri gli effetti della competizione sulle classi meno abbienti, attraverso il peggioramento delle condizioni di lavoro e la guerra sui ribassi salariali, causando in molti casi persino la chiusura degli stabilimenti.

Se tuttavia l’uscita dovesse risolversi, come alcuni pronosticano, in una pura guerra commerciale di dazi sul commercio estero con l’Unione, la working class britannica sarebbe ancora una volta la prima a pagare il prezzo del fallimento e di una eventuale recessione. Quel che sappiamo già ora è che nel breve termine, come sempre, a festeggiare sono gli speculatori e gli arbitraggisti, che in poche ore hanno guadagnato una fortuna scommettendo e determinando la svalutazione della sterlina.

Le ragioni politiche

Anche rispetto alle ragioni politiche banalizzare non conviene a nessuno. Le responsabilità sono molteplici, non soltanto dell’Unione Europea. Le politiche di tagli al welfare dei governi conservatori britannici ben poco hanno a che vedere con l’altrettanto scellerato vincolo di austerity imposto dalla Germania ai PIIGS; parimenti è da imputare a scelte propriamente nazionali e non a vincoli comunitari la crescita progressiva della diseguaglianza raccontata con grande efficacia da Atkinson nel suo recente volume Inequality.
Riguarda invece l’Europa, in chiave politica ed economica, il tema dell’immigrazione, giocato come elemento di contesa dentro e fuori il partito conservatore inglese.
La crescita esponenziale dei flussi migratori dai Paesi mediterranei verso la Gran Bretagna ha rappresentato il sintomo (oltre che il simbolo) di un’Europa a due velocità, in cui il divario occupazionale fra Nord e Sud va facendosi sempre più marcato: sempre più lavoratori sono costretti a spostarsi dalle aree in crisi verso economie più solide.

Quanti ancora ai fallimenti politici dell’Unione Europea, ve ne è uno rilevantissimo: si tratta dell’incapacità di costruire un processo democratico in grado di risolvere la contraddizione centro-periferie ad un livello più alto, creando istituzioni coerenti con un popolo europeo (tutto da costruire) che al suo interno riconosca per tutti una pari dignità anziché un mercato unico con pari libertà di prevalere senza limiti sull’altro. Il fatto stesso che alcune voci abbiano commentato il voto limi-tandosi a criticare l’istituzione stessa del referendum è la cifra di un fallimento senza appello, che si guarda bene dal produrre riflessioni sugli attuali assetti istituzionali e sulla crisi profonda di questo regime post-democratico. Come scrive correttamente Alberto Garzon, l’esito del referendum non è il problema, ma il sintomo di una Unione costruita per i mercanti e non per i popoli.

Da questo punto di vista di chi sono le responsabilità se non della grande coalizione europea di popolari, socialisti e liberali che ha impedito in questi anni ogni processo di democratizzazione e ha invece premuto l’acceleratore sul modello di Europa tecno-finanziaria e neoliberale? È questione strategica di prima grandezza: quando al centro collochi il profitto e non l’uomo, le diseguaglianze e l’insicurezza esplodono e il populismo cresce, mettendo sotto scacco la politica.

Che fare

Un’Europa senza democrazia e senza una fase espansiva che renda possibile una ripresa dell’occupazione e della redistribuzione della ricchezza è un’Europa debole, che non incide sullo scacchiere di un mondo in cui gli Stati Uniti (con Trump o senza Trump) continuano a svolgere il ruolo di gendarmi militari e in cui Russia e Cina non possono crescere sole in un multipolarismo monco.
Ma un’Europa così, oligarchica e classista, è nemica di chi si trova – senza possibilità di mobilità sociale – ai margini.

C’è bisogno di osare il coraggio di una vera politica riformatrice all’altezza dei tempi. Essa impone di rovesciare il tavolo, rifiutando la tenaglia che da un lato vede la tecnocrazia ultra-liberista e dall’altro l’ipotesi di una rottura in chiave nazionalista e populista dell’Unione.
Qui si colloca la nostra sfida, non nel reiterare un dibattito che si esaurisce sempre e comunque fra le opzioni (degli altri) in campo.

Manca e non può mancare un nostro pensiero forte, autonomo, riconoscibile e radicale.
Radicale, perché ciò che sfugge a chi propone come soluzione di ogni male l’uscita dall’Unione è esattamente la radice del problema, e cioè un mutato processo di accumulazione del capitale, che all’interno del suo framework ideologico vive lo scontro fra una finanza turbo-liberista e un’industria che paga il prezzo della globalizzazione, ben disposta oggi ad assecondare le pulsioni nazionaliste. Assecondare in maniera acritica quelle pulsioni significherebbe semplicemente distruggere l’Unione Europea da destra, associando al sistema di produzione esistente l’inasprirsi di un mercantilismo nazionalista, senza peraltro scalfire in modo significativo l’ipertrofia della finanza.

C’è bisogno piuttosto di un’altra Europa, che va costruita ritessendo le trame di un conflitto sociale su scala continentale finalmente visibile ed efficace e costruendo in ogni Paese una proposta politica, capace di rappresentare un’alternativa credibile.

Conflitto sociale: perché gli scioperi contro la Loi Travail ci dicono che in un mondo dominato dal codice binario i lavoratori in carne ed ossa sono ancora in grado di paralizzare i Paesi in modo classico e strutturato, costringendo i governi a fare i conti con un disagio diffuso e organizzato.
Su questo si aprano gli occhi: l’avanzata dei populismi risponde anche alla ritirata dei corpi intermedi, primo fra tutti il sindacato; e probabilmente non esiste via d’uscita dal vicolo cieco senza una vera e propria autoriforma che dalla politica coinvolga tutte le strutture sociali.
Serve, infine, un partito perché il tema non è quello della semplice contestazione, ma è quello del governo, della trasformazione reale. Oggi non ci siamo. Perché ogni giorno che passa ci dice che o nasciamo con l’ambizione minima di guardare al quadro europeo e quindi di strutturarci al livello europeo o non serviamo a nulla. E perché tutto, dalla linea ai gruppi dirigenti, va affrontato e chiarito. Quel che siamo non basta minimamente, è anzi un problema, un limite e un ostacolo decisivo al progetto di cambiare l’Italia e l’Europa. Anche di questa minuzia, tra le altre cose, potremmo discutere nei prossimi mesi, così decisivi.

Commenti

  • claudio

    Lo dico con rispetto, ma se stiamo a quanto la sinistra “produce” in termini di determinazioni/decisioni politiche altro che un’altra Europa, non ci sarebbe neanche questa e forse neanche l’Italia per come la conosciamo (che con tutti i suoi difetti e disparità garantisce comunque un tenore di vita che porta tutti, anche il meno abbiente, a posizionarsi nella fascia del 15% della popolazione mondiale più ricca e con il più alto tenore di vita rispetto al restante 85%). Se per ogni milione di parole al vento ci fosse anche un’azione concreta capace di produrre effetti reali (ne vediamo qualcuno solo in alcune sporadiche amministrazioni locali dove la sinistra non ha ceduto alla tentazione nichilista di distinguersi anche da se stessa) da parte della sinistra allora ci sarebbe ancora qualcosa da sperare. Certamente è ancora possibile un radicale cambio di direzione che riporti la sinistra ad essere soggetto politico concreto e non mero rifugio identitario del tutto sterile. Ma è tutt’altro che un approdo scontato o di facile conseguimento. Alla sinistra non serve semplicemente un partito, serve un reset totale, a partire dai troppi predicatori che sanno solo parlare male degli altri.