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Lunedì, 4 maggio 2015

Camera con vista

Renzi

Se non fossimo al punto in cui siamo ci sarebbe da chiedersi seriamente il perché della forzatura di Renzi sul voto di fiducia sull’Italicum. Nulla in realtà ostava a che l’intera vicenda, senza ulteriori tensioni tra le parti, si concludesse secondo i desiderata del premier. I numeri a suo favore c’erano. La minoranza del Pd, in questa così ruvida e spiazzante stagione del redde rationem, per tutte le filiere che la compongono, aveva già ampiamente dato prova più volte di non voler tentare nulla che la costringa a uscire dalla propria insignificanza politica; e per il resto non c’è niente e nessuno che faccia ingombro all’azione “asfaltatrice” di Matteo Renzi.

Ma  Renzi ha deciso di forzare sulla legge elettorale – cioè su una materia  che dovrebbe essere di stretta competenza del Parlamento e che il governo si è invece intestata come roba sua –  per segnalare, col clamore della grande performance pubblica che ne è seguita,  il decisivo passaggio politico-istituzionale che lo sgarro istituzionale ha plasticamente messo in scena e di cui il premier vuole il riconoscimento politico e simbolico. Renzi ha voluto cioè rappresentare davanti all’opinione pubblica che tra il Parlamento delle chiacchiere e dei privilegi e il governo delle decisioni e delle semplificazioni, lui, il Matteo nazionale, che pensa al popolo e come il popolo, sta dalla parte giusta e non si perita a disciplinare i comportamenti riottosi, dovunque si annidino. Il disciplinamento nei confronti di chi non ci sta è la cifra di quel renziano alzare le spalle e affermare di continuo che nulla lo fermerà. Chi decide è lui, punto e a capo.

La pienezza anche formale della democrazia decidente è il suo obiettivo. Il che, in maniera semplice, significa l’affermazione definitiva e incontrovertibile sul piano politico-istituzionale della supremazia dell’esecutivo sul Parlamento. E siccome poi siamo in Italia, dove il fantasma dell’Uomo forte sta sempre là a farci compagnia, – certi toni della voce urlante di Renzi in questi giorni lo evocano – questa supremazia potrà affermarsi anche senza una chiara divisione dei poteri, senza quell’ altrettanto chiaro e definito sistema di pesi e contrappesi –  l’insieme di checks and balances che è alla base del presidenzialismo della Casa Bianca, e che qualcuno della sinistra dem butta là qualche volta come una chiacchiera casuale.

L’idea renziana è che il partito che esce vincitore dalle elezioni politiche prenda tutto il banco. Anche se ce l’ha fatta superando a fatica il ballottaggio e partendo da un infimo risultato al primo turno. Col 22% dei consensi elettorali, il 55% dei rappresentanti, per esempio, per lo più ancora una volta di nominati. E con il nuovo Senato, a disposizione di chi vince, il governo avrà il potere su tutto. Sulla nomina dei giudici della Consulta, per esempio, un altro fastidioso centro di potere che può entrare continuamente in rotta di collisione col grande manovratore. Legge Fornero docet.

Il trattamento inflitto alla Camera con il voto di fiducia sulla legge elettorale, così come la richiesta di destituzione degli esponenti dem ostili all’Italicum dalla Commissione Affari costituzionali, sono atti, insieme a molti altri episodi, che rientrano a pieno titolo nella strategia di disciplinamento che Renzi persegue nei confronti del Parlamento.

Andare avanti per forzature e per proclami salvifici è una modalità connaturata all’ indole del personaggio, che persino la postura del corpo rivela, quando il premier esterna in Parlamento per annunci, dai banchi del governo, e rende manifesto il fastidio da orticaria che quei luoghi antichi gli comunicano. Il tutto fa intrinsecamente parte della cultura pop e provincial-leopoldesca di cui il premier è imbevuto; discende dall’idea post democratica e post costituzionale che, senza remore,  lo stesso premier sciorina per slogan, tweet, richiami da marketing nelle più svariate occasioni. Post democratica e post costituzionale perché l’ordinamento repubblicano è ormai labile e slabbrato e l’unità del sistema costituzionale non c’è più, è nei fatti disarticolato e a disposizione della casualità del potere politico,  per via di continue e casuali modifiche di articoli, perdita di significato di principi una volta fondamentali, a partire dall’articolo uno, comma primo,  e nefandezze  variamente introdotte e fortemente lesive dell’impianto : il pareggio di bilancio in primis. Tutto questo mentre  il grande circo mediatico è impegnato nell’opera di propinare a dosi massicce il veleno dell’assuefazione sociale e culturale all’andazzo.

Depotenziare fortemente i corpi intermedi e i soggetti costituzionali della mediazione tra il popolo sovrano e i poteri costituiti  è una tendenza storica della post modernità occidentale, cioè della civiltà giuridica che di quella mediazione ha fatto il perno dello Stato democratico. In Italia la tendenza tocca ormai punte allarmanti, soprattutto per l’assuefazione che i disastri della politica, nonché l’uso politico di quei disastri a sostegno dell’antipolitica, hanno alimentato nel’opinione pubblica.

Nulla di più ingombrante del Parlamento c’è oggi per Renzi, nonostante che ciò che rimane del Parlamento funzioni ormai solo come ufficio di convalida delle decisioni del governo. Ma sul piano della forma costituzionale, delle procedure, delle prerogative, il Parlamento è il Parlamento e mantiene ancora potenzialmente parte del suo potere. Renzi sa di dover ancora contrattare. Renzi sa che, a norma del regolamento della Camera, sarebbe stato possibile per i deputati dem, di cui era stata chiesta la sostituzione, ricorrere alla Giunta per il regolamento, sollevando serie obiezioni alla propria destituzione. Anche la richiesta di fiducia sull’Italicum poteva essere messa in discussione dalla Presidente Boldrini, attraverso un’interpretazione più consona al ruolo della Camera, e alle sue stesse prerogative presidenziali, degli articoli otto e centosedici del regolamento. Alcuni costituzionalisti ne hanno parlato. Ma i tempi sono quelli che sono, a tutti i livelli.

Renzi considera la Camera dei rappresentanti del popolo né più né meno che un fastidioso corpo intermedio, particolarmente fastidioso per lui, per quel modo in Costituzione di parlare della sovranità del popolo, che si esercita “nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Forma che è quella di una Repubblica parlamentare e limiti che sono quelli fissabili via via, oltre a quelli già previsti dalla Carta, dal potere legislativo del Parlamento. Un ingombro davvero insopportabile, utile solo se si adegua al primato del’esecutivo. O meglio del premier.

Matteo Renzi non nasce dal nulla e la sua disinvoltura politica, così mediaticamente innervata dei meccanismi tipici del populismo e dell’antipolitica, è l’ultimo prodotto della lunga fase di crisi politica che abbiamo alle spalle. Non bisogna cessare di ricordarlo, perché la responsabilità della nuova fenomenologia politica, denominabile come renzismo,  non è solo dell’attuale capo del governo, che fornisce il nome, ma appartiene soprattutto a quella lunga filiera di élites politiche di area di sinistra, “progressista”, “democratica”, che hanno fatto la storia italiana degli ultimi vent’anni. Hanno chiuso gli occhi o hanno acconsentito a quella che un grande pensatore di altri tempi avrebbe chiamato “rivoluzione passiva” e che la sinistra italiana – in un contesto internazionale su cui riandrebbe aperta una riflessione senza sconti per nessuno – ha voluto sempre più limitarsi a etichettare esclusivamente come berlusconismo. Ignorando così  il mix velenoso di ricette neoliberiste e di attacco alla democrazia che era alla base di un cambio di passo della Storia. Una crisi politica che ha per altro da allora schiantato la stessa sinistra italian, al punto che è dalle sue spoglie che nascono Renzi e il renzismo nonché l’insieme  di ricette neoliberiste ed elargizioni caritatevoli con cui il premier vuole sancire il definitivo superamento della distinzione tra destra e sinistra.

E’ proprio da quello che succede oggi alla Camera che è possibile leggere con tutta la chiarezza necessaria la pericolosa accelerazione che le dinamiche involutive dell’ordinamento democratico del nostro Paese stanno subendo. Le slabbrature insomma possono diventare crepacci.

 

 

Commenti

  • francesco

    Scusi On. Deiana, ma se come sostiene a proposito del PD (Renzi oltre ad essere l’attuale Presidente del Consiglio è il Segretario nazionale di quel partito e dunque ne esprime e rappresenta la linea politica), ovvero che questi è la causa della “pericolosa
    accelerazione che le dinamiche involutive dell’ordinamento democratico
    del nostro Paese stanno subendo”, è vero perchè ci si allea con esso a livello locale?

    Come ho commentato ironicamente in un altro articolo non ci si rende conto che aiutare il PD a
    vincere a livello locale equivale a rafforzare politicamente il governo
    nazionale (guidato da Matteo Renzi, quello che – a vostro parere – sta demolendo la nostra democrazia) che più beneficerà (in termini di capitalizzazione di consenso) di un buon risuoltato generale alle prossime elezioni regionali (esattamente come è successo alle precedenti elezioni europee)?
    Comprendo benissimo la complessità della questione e la necessità di non isolarsi completamente da parte di SEL, ma se il contesto è quello descritto e l’attuale PD (nel suo insieme a prescindere da qualche sporadica dissidenza interna) è così pericoloso, non sarebbe ora di fare una scelta di campo più netta e omogenea a tutti i livelli. Forse sfugge ma l’elettore dell’Umbria o della Puglia (per fare due esempi a caso) che si propongono di votare SEL crede non leggano o siano informati di quanto accade a livello nazionale? E se lo sono (e lo sono dato che oggi l’informazione è così pervasiva) cosa possono mai pensare di un partito che da un lato si listra il braccio al lutto e lancia crisantemi contro il PD accusandolo di uccidere la democrazia e poi si allea con lui? Davvero quell’elettore può ragionevolmente comprendere che siano due realtà e due contesti diversi e separati? Non credo proprio dato che non lo sono ed ambito nazionale ed ambito locale oggi, nel mondo globale, sono sempre più vicini ed interconessi 8tanto da consnetire ad un Sindaco di una città che non faceva parte del’hestablishment del principale partito nazionale, anzi inviso da essa, di scalarlo e diventare Presidente del Consiglio. Se i due piani Nazionale-locale fossero distinti come ancora SEL teorizza ciò sarebbe mai sato realisticamente possibile?).
    Inoltre possibile non capire la differenza di contesto tra quando il PCI adottava la politica del “doppio forno” (a livello locale governava con il PSI ed a livello nazionale era all’opposizione) e quello attuale in cui SEL prova a fare altrettanto? Allora il parter del PCI NON era il principale partito politico con cui si contrapponeva a livello nazionale, la DC, ma un partito minore che era fuori (in termini numerici) dalla sfida tra le due principali forze che si contendevano l’egemonia politica nel poaese PCI e DC appunto. Mai PCI e DC erano alleate. Diversamente nel nostro caso il PD è il principale partito nazionale ed al quale ci opponiamo strenuamente (ed ultimamente in modo così plateale da rasentare la farsa) e dunque come possiamo essere credibili se ci alleiamo con esso? Lei che sicuramente capisce di politica e società più di me, si trova così a suo agio in questa macroscopica contraddizione?

  • Elettra Deiana

    Gentile Francesco,
    per quanto mi riguarda personalmente, concordo sugli elementi da lei segnalati non solo di criticità ma anche contradditori che – soprattutto con l’accelerazione impressa dalla nuova segreteria del Pd – può comportare l’opposizione che Sel attua a livello nazionale – benedetta opposizione – e le alleanze a livello territoriale che eredititamo dal passato e che in alcune situazioni regionali, abbiamo riconfermato per l’imminente tornata elettorale. E’ un tema su cui in Sel si è avviato un dibattito perché, come lei stesso ci concede – si tratta di una materia complessa che ha implicazioni politiche rispetto alle quali la soluzione non può essere presa senza il necessario coinvolgimento di Sel a tutti i livelli e anche senza la ridefinizione di che cosa significhi oggi l’autonomia di un piccolo partito come è Sel sulle questioni territoriali. Che si tratti di un percorso di ripensamento serio lo dimostra d’altra parte il fatto che in alcune regioni e in alcuni comuni Sel è impegnata in liste di sinistra autonome dal Pd, Anche la critica che Sel sta sviluppando sull’evoluzione negativa del Pd sul tema fondamentale del nesso tra democrazia e giustizia sociale e sul crescente decadimento che il nuovo corso dem promuove dello “spirito costituzionale”, va nello stesso senso di sottolineare e rendere evidente come problema della politica la necessità che serve altro.
    Che poi si sia in grado si vedrà, ovviamente. La saluto

  • francesco

    Gentilissima On. Deiana,
    la ringrazio sinceramente per la sua attenzione e mi preme dirlo – al di là delle differenze di idee – Le fa particolarmente onore questa sua disponibilità al confronto che non sempre (anzi raramente) contradisstingue la dirigenza apicale di un partito.
    Grazie ancora. Saluti sinceri.