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Lunedì, 14 dicembre 2015

Cop21: dai primi 25 anni ai secondi 25 anni di negoziato climatico

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In una Parigi colpita dai lugubri devastanti attentati del 13 novembre le due settimane di negoziato climatico sono state terremotate anche dai due turni elettorali francesi: il Front National primo partito in percentuale, atteso ma non meno scioccante, la sua sconfitta nei 13 ballottaggi, sospirata ma non definitiva. Nei primi commenti alla Cop21 sono stati sprecati aggettivi storici e sono cominciati a emergere gli aspetti controversi dell’accordo finale. Tutti le capitali e le nazioni che ospitano un’importante conferenza Onu vogliono aver lasciato un segno indelebile nel percorso dell’umanità, ogni capo di governo e ogni ministro vogliono poter dire di aver influito su una svolta epocale durante il proprio mandato, ogni militante e ogni interesse costituito vuole non sprecare il proprio tempo. Le categorie del bicchiere mezzo pieno-vuoto, della rivoluzione e del fallimento, di ottimismo-pessimismo ritornano ciclicamente e non aiutano a comprendere. È bene contestualizzare e relativizzare.

Che la temperatura media del pianeta stia crescendo per comportamenti umani e che il riscaldamento provochi effetti già dannosi e potenzialmente rovinosi è acclarato sul piano scientifico e diplomatico da 25 anni. L’Onu è un benestante precario corpo di nazioni formalmente unite, da quando è finita la guerra fredda ha cominciato a muoversi, nel 1988 ha legittimato un gruppo mondiale di scienziati che nel 1990 hanno approvato un primo Rapporto sui Cambiamenti Climatici e nel 1992 ha organizzato a Rio una Conferenza per approvare una conseguente convenzione (insieme ad altri atti e indirizzi su ambiente e sviluppo). Da allora sono seguiti altri quattro rapporti dell’Ipcc, l’entrata in vigore della convenzione e ben 21 incontri di tutte le “parti” dell’Onu, a Parigi la ventunesima. Da un quarto di secolo sappiamo con sempre maggiore precisione che la temperatura del 2050 non dovrà aumentare di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, se vogliamo evitare uno sconquasso ingestibile nell’ecosistema globale e in tante singole aree, ingentissimi costi umani e finanziari, migrazioni forzate e insicurezza sociale.

Si è negoziato tanto, decine di riunioni fra una conferenza annuale e l’altra, a Kyoto si era adottata una strategia di impegni scadenzati e vincolanti, lì (come primo passo e per un primissimo periodo fino al 2012) solo per i paesi che avevano provocato più emissioni e riscaldamento. In Giappone c’era Gore come vicepresidente Usa a benedire una strategia che (già si sapeva) gli Usa non avrebbero mai fatta propria e che (già si sapeva) difficilmente poteva essere adottata da chi cominciava allora a emettere anidride carbonica, a inquinare l’aria e a riscaldare il pianeta. Il protocollo è entrato in vigore solo 8 anni dopo e progressivamente quella strategia è stata abbandonata, se ne è abbozzata un’altra da 5-6 anni. Da allora l’essenziale non è stato più negoziato, ovvero obblighi quantificati e scadenzati, globali e differenziati, legalmente vincolanti di riduzione delle emissioni per garantire al pianeta un aumento minimo della temperatura. Il rifiuto di quella scientifica richiesta è tristemente acquisito. Ogni paese farà quanto vuole, volontariamente, questa è la nuova strategia, piani nazionali di mitigazione e adattamento. Negoziare significa accettare che “bisogna” che si faccia, ognuno accanto agli altri. Il risultato di Parigi è che la nuova strategia ha un minimo percorso legalmente vincolante e qualche punto fermo “politico”.

Da cinque anni i due punti cruciali e minimali del negoziato sono i soldi e i controlli: quanto e come mettono fondi i paesi ricchi per aiutare quelli poveri; chi e con quali coerenti omogenei strumenti misura l’eventuale riduzione. Sul piano finanziario è stato trovato un qualche consenso, sia sulla cifra annuale dopo il 2020 (ruota intorno ai 100 miliardi di dollari, quelli già progressivamente previsti fino al 2020) sia sulle modalità di versamento prima e dopo il 2020. Sul piano amministrativo si lascia una eccessiva flessibilità: i piani nazionali di impegni volontari sono ormai stati presentati da 188 paesi (gli ultimi a Parigi), il fatto è che chi ha provato a compararli ha verificato una babele (gli stessi Usa non adottano il 1990 come data dalla quale si calcola la riduzione) e chi ha provato a verificare la riduzione complessiva se ogni paese li rispettasse ha mostrato che la temperatura salirà tra il 2,7 e il 3 per cento. Nel prossimo decennio in ogni paese dovremo ottenere che si faccia prima e meglio (il governo italiano dovrebbe proprio rifiutare subito le pessime trivellazioni in mare, senza aspettare il referendum).

E poi ci sono le “grandes questions oubliées” come le aveva chiamate lo speciale di Le Monde per Cop21: oceani, biodiversità, migrazioni, sicurezza alimentare. Questi temi non figuravano nemmeno all’interno del negoziato climatico, pur essendo strettamente connessi agli impatti e agli effetti dei cambiamenti climatici in corso: innalzamento (e acidificazione) del mare, aumento di frequenza e intensità degli eventi meteorologici estremi, sconvolgimento degli equilibri di molti ecosistemi (e delle specie che vi vivono), siccità e desertificazione crescenti (insieme a sete e fame) nelle aree già secche del pianeta. Certo, a Parigi se ne è comunque parlato molto (a cominciare da Hollande) e ve ne se trova traccia nei documenti finali. Nel prossimo decennio dovremo ottenere che si apra un serio negoziato globale, i documenti di Parigi non danno certezze su energia e agricoltura, mobilità e migrazioni sostenibili.

L’enciclica papale e i documenti di altre religioni (a Istanbul quella dell’Islam) sono essenziali alla nuova strategia, abbiamo un gran bisogno di donne e uomini di buona volontà, credenti e non credenti. Individui, gruppi, comunità, nazioni interessati solo a guadagnarci in proprio nel vecchio e nel nuovo mercato, con i combustibili fossili insieme alle rinnovabili, con le armi insieme allo sminamento, con le malattie insieme alla sanità privata non sono mai mancati e non mancheranno. Il negoziato climatico può essere funzionale anche a loro, la nostra “buona” volontà consiste nel promuovere resilienza degli ecosistemi, biodiversità dei beni comuni, lotta a ingiustizie e inuguaglianze, garanzia globale di libertà di accesso alle risorse, cooperazione (anche decentrata) allo sviluppo sostenibile.

L’accordo di Parigi va ora ratificato (il meccanismo delle ratifiche è simile a quello che approvammo a Kyoto 18 anni fa, solo che ora gli emettitori che contano sono Cina e Usa, mentre allora erano Usa e Russia). Il combinato disposto delle parti “legali” e delle parti “politiche” rende non indispensabile l’iter legislativo americano (Obama è riuscito in una bella operazione). Entro il 2020 dovrebbe entrare in vigore, un po’ prima vi sarà la verifica “politica” dei piani nazionali, un po’ dopo quella “legale” (quinquennale). Il negoziato climatico è destinato a continuare, non si chiuderà (forse mai), nemmeno il prossimo anno alla Cop22 di Marrakech (per la gioia dei negoziatori). Attrezziamoci a farne un tema fondante l’identità ecologista di una sinistra moderna, dentro e fuori l’Europa.

 

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