Sei in: Home › Attualità › Notizie › Elitaria e di casta: l’università del governo Renzi
Mercoledì, 1 luglio 2015

Elitaria e di casta: l’università del governo Renzi

università

Una rondine non fa primavera. Ben tre episodi, però, danno una chiara rappresentazione di una visione complessiva. Un’idea di università che non si discosta dalla riforma Gelmini e approfondisce il divario fra i soggetti sociali meno abbienti e la possibilità di accedere ai gradi più alti della formazione.

Un nuovo ISEE?

La riforma del principale indicatore con cui sono erogati benefici e contributi sociali è una richiesta fatta da anni da associazioni di categoria e sindacati. Trasparenza, analisi dei beni di lusso: nobilissime ragioni poste al centro del Decreto Legge n. 201 del 2011 e dal “Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’Indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)” contenuto nel Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 3 dicembre 2013. Peccato che l’applicazione lasci un po’ a desiderare in termini di equità e giustizia sociale. Il Consiglio Nazionale degli Studenti Universitari, per ben due volte fra febbraio e marzo, ha richiamato il MIUR su un drammatico e prevedibile esito del nuovo calcolo ISEE in merito alle borse di studio erogate dagli Enti regionali di DSU: la contrazione del numero degli idonei ai benefici concessi, al momento, dalle aziende regionali. Non proprio il massimo per un’Italia che ancora non concede le borse al 100% dei idonei, togliendo ad un’intera generazione la possibilità di accedere all’Università. Il CNSU chiedeva al MIUR di attivare, di concerto con il Ministero del Lavoro, uno studio sull’impatto del nuovo metodo di calcolo sulla popolazione studentesca, così da rivelare eventuali aumenti degli importi della contribuzione. Ciò ai fini di linee guida comuni, da definire insieme a CNSU e CRUI, in cui si indicassero adeguamenti degli attuali importi di tassazione e/o forme di restituzione dei maggiori oneri fiscali. Nulla di questo è stato fatto: nessuna risposta è stata data alle problematicità sollevate in merito al conteggio dei redditi percepiti dai fratelli dei richiedenti borsa, alla ponderazione dei contributi prodotti da genitori non affidatari in caso di separazioni, al calcolo del patrimonio immobiliare, all’esenzione di altri benefici sociali percepiti.

Solo alcune regioni, come la Toscana, la Puglia e la Lombardia, hanno provato ad anticipare i dati dell’anno accademico 2015/2016. In particolar modo, la Toscana ha innalzato la soglia ISEE necessaria a ottenere la borsa di studio da 19 a 20mila €, motivando tale scelta con un corposo studio dell’IRPET a cura degli analisti Nicola Sciclone e Letizia Ravagli: lo studio ha dimostrato come, a parità di condizioni patrimoniali e di reddito e in assenza di un innalzamento della soglia ISEE, il 9% dei richiedenti i benefici del DSU Toscana rispetto al 2014 (1.646 studenti su 18.111 richiedenti complessivi) avrebbe perso la borsa di studio. La percentuale s’innalza sino al 14% computando i 961 studenti che l’avrebbero perduta in ragione del solo aumento dell’indicatore ISEEP: la rivalutazione della componente patrimoniale, dunque, avrebbe sensibilmente aggravato la quantità di studenti senza benefici. La Lombardia, come recentemente segnalato da Link – Coordinamento Universitario, ha computato nell’11% dell’attuale platea di beneficiari la percentuale di studenti che avrebbero potenzialmente perso la borsa il prossimo anno. La Puglia, tramite la deliberazione di Giunta Regionale del 26 marzo 2015, ha portato la soglia ISEE da 17 a 19 mila € e quella ISPEP da 31 a 35 mila € per le stesse ragioni. Il TAR del Lazio, annullando l’art. 4, comma 2, lettera f del suddetto DPCM 159/2013, scriveva: «Non è dato comprendere per quale ragione, nella nozione di “reddito”, che dovrebbe riferirsi a incrementi di ricchezza idonei alla partecipazione alla componente fiscale di ogni ordinamento, sono stati compresi anche gli emolumenti riconosciuti a titolo meramente compensativo e/o risarcitorio a favore delle situazioni di “disabilità”, quali le indennità di accompagnamento, le pensioni INPS alle persone che versano in stato di disabilità e bisogno economico». La sentenza faceva riferimento ai benefici connessi alla disabilità, computati nel nuovo ISEE come parte del reddito. Applicando il medesimo ragionamento, riscontriamo come le scelte del governo e, soprattutto, i silenzi del Ministero circa le interrogazioni presentate, esprimano il primo grave elemento che prefigura un’università per alcuni e non per tutti, in cui il massimo possibile potrebbe essere l’emigrazione di massa dalle Regioni che – per volontà politica o fondi mancanti – non coprono la totalità degli idonei verso quelle università i cui enti regionali di riferimento esprimono (residuali) politiche virtuose.

La diminuzione degli immatricolati

L’applicazione nell’anno accademico 2015/2016 del nuovo ISEE avrà conseguenze anche sulla contribuzione studentesca che, tuttavia, è già mediamente aumentata con la rottura del vincolo del 20% fra FFO (finanziamento ordinario degli atenei) e tasse pagate dagli studenti e dalle loro famiglie. Tale problematicità s’innesta alla diminuzione degli immatricolati all’Università, che il XVII rapporto AlmaLaurea riassume in tutta la sua strutturale drammaticità: «dal 2003 (anno del massimo storico di 338 mila) al 2013 (con 270 mila) il calo è stato del 20% ed è l’effetto combinato del calo demografico (il nostro Paese, nel periodo 1984- 2013, ha visto contrarsi del 40% – quasi 390 mila unità – la popolazione diciannovenne), della diminuzione degli immatricolati in età più adulta, del deterioramento delle prospettive occupazionali dei laureati, della crescente difficoltà di tante famiglie a sostenere i costi dell’istruzione universitaria, della crescente incidenza di figli di immigrati e di una politica del Diritto allo Studio ancora carente. Tanto che, oggigiorno, solo 3 diciannovenni su 10 si immatricolano all’università».

Il modello di istruzione superiore costruito nell’ultimo decennio è pertanto figlio di una narrazione gravemente trasversale fra destre e governo: non a tutti i cittadini è consentito andare all’Università. In particolar modo, questa narrazione ci dice che “il figlio dell’operaio è bene faccia il precario”, vista la dequalificazione stessa dei titoli di studio.

Il combinato disposto di principi premiali e strumenti punitivi nel finanziamento e nella valutazione degli Atenei allarga sempre più il divario fra poche accademie lautamente finanziate e molte sotto-finanziate. La liberalizzazione delle tasse universitarie sancita nel 2012 dal governo Monti, come indicato – a titolo di esempio – da un’inchiesta del Messaggero su dati dell’Unione degli Universitari, ha visto le tre principali università romane aumentare in 10 anni la propria contribuzione media del 50%. Nel dettaglio, fra 2004/05 e 2014/15, la Sapienza ha aumentato la tassazione media da circa 613€ a 1128€ (+83,9%), Tor Vergata del 74,4% e Roma Tre “solo” del 47,6%. Gli effetti? Abbandono precoce degli studi (la Sapienza ha constatato l’abbandono degli studi di circa 6 mila studenti su scala decennale), calo delle immatricolazioni (-24,6% dal 2004/05 al 2014/15 in tutto il Lazio, da circa 40 mila a 30 mila unità), riduzione dei laureati (- 11, 1%). La cura di Giavazzi, Perotti e Alesina applicata in tutta la sua possenza.

Il taglio dei posti a concorso per Medicina e Chirurgia

L’ultima notizia viene da una segnalazione del Sole 24 Ore, che ha lanciato l’allarme sulla decurtazione dei posti disponibili in Medicina e Chirurgia che saranno messi a concorso con il numero chiuso per l’anno accademico 2015/16. Una decisione difesa con parole quasi affascinanti dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri:

«È una questione di giustizia. Non è giusto negare il futuro ai nostri giovani, costringendoli a perdere anni del loro percorso formativo, professionale, di vita. Comprendiamo le problematiche legate alla situazione finanziaria. Ma un Paese che non investe sui giovani è un Paese senza speranza. Non è più il tempo delle attese e dei rinvii: con estrema urgenza occorre invece garantire quelle opportunità di formazione – adeguate agli standard europei – che sono necessarie ai professionisti per poter svolgere con competenza il proprio ruolo all’interno dei sistemi sanitari e che sono indispensabili per assicurare cure di qualità ai cittadini».

Ergo: difendiamo il futuro dei nostri giovani, tagliamo di 937 unità i posti messi a concorso per la laurea magistrale a ciclo unico in Medicina e Chirurgia, passando da 10083 a 9146. Secondo il FNOMCO e il presidente del CUN Andrea Lenzi, tale riduzione è funzionale all’effettiva quantità di medici e chirurghi messi a disposizione dei servizi sanitari regionali ed evita di formare medici “esodati”, senza reali prospettive occupazionali. Qualcuno dimentica, però, che queste riduzioni di fabbisogno sono connesse agli sconcertanti tagli al sistema sanitario imposti dal Governo negli ultimi anni, nonché alle operazioni di “riforma” di sistemi regionali come quello toscano, in cui la concreta opportunità di turn-over è fatta saltare. Si omette di parlare, inoltre, della diminuzione del numero di borse di specializzazione di area medica, considerato come fattore ormai ordinario del comparto. Dal MIUR, gravemente in silenzio su tale vicenda, si omette di fornire un piano concordato con le Regioni e il Ministero della Salute per costruire le basi di quella “riforma del numero chiuso” proposta alcuni mesi fa dalla ministra Giannini e fatta cadere nel dimenticatoio.

Sinistra verso la #buonauniversità

Il dipartimento Saperi di SEL ha iniziato una serie di seminari auto-formativi aperti ai nostri

partner sociali: vogliamo provare a costruire una visione complessiva e non autoreferenziale di “nostra università” con cui sfidare il governo e le parti politiche e in cui riversare il nostro patrimonio di analisi, condensato nel Libro Bianco sull’Università e la Ricerca del 2013. La strada non sarà né facile né tanto meno agevole: la diminuzione delle immatricolazioni non è solo una vertenza delle parti sociali, ma interroga tutti (associazioni, sindacati, partiti) in merito all’Università dei prossimi dieci anni. Nell’Università elitaria e di casta disegnata dalla riforma Gelmini, rilanciata da araldi come Alesina, Perotti e Giavazzi, confermata dal governo dei tecnici e dalle larghe intese, il piano di riforme renziano – la c.d. “buona università” – può essere l’ultimo colpo, contro cui è necessaria una mobilitazione difficile.

I corpi sociali più deboli di questa università (studenti, specie borsisti, dottorandi, precari, ricercatori senza sbocchi occupazionali certi) rischiano di trovarsi ai prossimi appuntamenti separati, sforniti di una narrazione alternativa, logorati ai fianchi da inquilini di Via Trastevere sempre più disattenti. Nella sinistra che verrà nei prossimi mesi, o saremo percepibili come strumento utile per affrontare una sfida per la promozione di un’Altra Idea di Università o ci ritroveremo spaccati, a difendere “fortini virtuosi” sempre più assediati, a promuovere una categoria a discapito di un’altra. È un sfida in cui l’interlocuzione con la mobilitazione sociale non può limitarsi alla “pacca sulle spalle” fra attori politici e associazioni, ma può e deve incardinarsi in una scrittura condivisa dell’Altra Università, della Nostra Università, in cui gli elementi positivi sono spunti per costruire un quadro d’insieme efficace e una proposta vincente.

Traslare il “fattore umano” nella centralità del “fattore sapere” può e deve essere la nostra sfida affinché l’Università dei prossimi lustri non sia solo uno spazio di pochi illuminati, ma la chiave per una società democratica e solidale.

Commenti