Sei in: Home › Attualità › Notizie › Filibustering, una questione di democrazia
Mercoledì, 30 luglio 2014

Filibustering, una questione di democrazia

11.08.2012_Madd_Hatter-885x1024

Forse mai come sta succedendo in questi giorni, nel dibattito in corso al Senato sulla riforma costituzionale, è stato messo in discussione e vilipeso il diritto dell’opposizione a far valere le proprie ragioni nei modi previsti, cioè usando tutti i mezzi che il regolamento mette a disposizione, compreso l’ostruzionismo. E’ storia antica del Parlamento la dialettica tra maggioranza e opposizione, tra il governo e la parte dell’assemblea contraria ai suoi decreti e alle sue proposte, e spesso si è trattato di una dialettica durissima, al calor bianco. Gira sulla rete il testo di un appello appassionato che l’onorevole Dario Franceschini rivolse alla sua parte affinché in tutti i modi e con tutti i mezzi si facessero valere le ragioni dell’opposizione a una proposta di legge del governo Berlusconi. Ma è solo uno dei tantissimi esempi che si potrebbero fare. E dunque, dov’è lo scandalo?

Lo scandalo, per chi lo vede, è proprio qui, nell’entrata in scena di quella che dovrebbe essere l’irriducibile radice della democrazia: il diritto dell’opposizione di mettere in atto tutto quello che la Costituzione prevede, e i regolamenti di Camera e Senato ne fanno parte,  per chiarire all’aula e soprattutto all’opinione pubblica le proprie ragioni, tentando anche di migliorare, cambiare il testo. Bocciarlo. E’ una questione della democrazia, ritenuta obsoleta nell’epoca di Renzi, del tutto imprevedibile per come il personaggio è congegnato, visto che il premier pensa di dirigere la baracca italiana con i suoi tweet mattinieri. E’ questo il punctum dolens, la questione dirimente. L’opposizione, da condurre fino a dove i rapporti di forza numerici lo consentano e i regolamenti lo permettano, è nella logica costituzionale e fa parte da sempre della prassi democratica del Parlamento. Solo i conduttori ammaestrati del talk show possono fare la faccia meravigliata. Ed è proprio qui che Renzi vuole averla vinta. Addomesticare, addomesticare, addomesticare. Ridurre tutti a più miti consigli. Amputare fino a farla sparire la dialettica parlamentare – o farne soltanto un fantasma accattivante, funzionale a salvare le anime belle e a sbandierare nei salotti televisivi come un bouquet delle buone maniere – e irrobustire fino a farlo giganteggiare il potere dell’esecutivo. E’ oggi la sua scommessa, la carta con cui vuole gareggiare e competere in Europa: non l’abolizione di un’inutile doppia Camera e nemmeno un’efficiente istituzione che la sostituisca, ma la vittoria del suo governo sugli inutili perdigiorni che occupano la rappresentanza. Lo dice in continuazione. E’ il suo mantra programmatico, Che poi il nuovo Senato possa produrre incasinamenti con la Conferenza Stato Regioni, che i poteri di cui sarà ancora dotato sul bilancio dello Stato contengano il rischio di nuove confusioni tra competenze dello Stato e competenze delle regioni e inghippi sui tempi di approvazione, aspetto davvero serio, per chi ha sbraitato sulla cancellazione del Senato: tutto questo non ha la minima importanza. Ce l’ho fatta: questo è il tweet.

Nello scontro che si è aperto al Senato, le senatrici e i senatori di Sel hanno sollevato questioni di fondo, non di mantenimento del Senato così com’è ora ma di qualità democratica dell’organismo che dovrebbe subentrare. Le loro obiezioni e proposte sono cadute letteralmente nel vuoto così come quelle di altri gruppi dell’opposizione, in particolare il M5S, spesso d’accordo con i problemi sollevati dal gruppo di Sel. Se Renzi o chi per lui (Boschi), pretendono di mantenere in mano l’assoluta sovranità dei famosi paletti insormontabili, posti a difesa dell’impianto originario – quello concordato per via extra parlamentare con Berlusconi – non rimane altra via democratica che tentare l’opposizione, fino alla pratica dell’ostruzionismo, con lo scopo che va dichiarato di rallentare, bloccare, far ripartire con la fatica necessaria – il Parlamento non è un pranzo di gala – forse alla fine riaprire un dialogo costruttivo per migliorare almeno un po’ il pastrocchio.

Se c’è qualcosa rispetto a cui si può parlare di vocazione autoritari in Renzi è proprio la sua reazione non democratica alla prassi democratica. Sta a testimoniarlo la violenta, velenosa campagna scatenata da lui e dalla sua ineffabile squadra per vilipendere il diritto dell’opposizione a fare quello che la Costituzione rende lecito e la politica doveroso, così alimentando il grande circo mediatico che trasforma ogni dibattito politico in un’occasione di spettacolo e di intrattenimento da quattro soldi.

Mettere mano alle regole della legge fondamentale – cioè la Costituzione – senza chiarire quale sia l’idea complessiva della convivenza civile, sociale e politica del Paese e in che direzione vadano i cambiamenti proposti, è un atto non solo indebito ma fortemente insidioso e intrinsecamente autoritario. Bisogna ringraziare Sel e soprattutto il suo gruppo a Senato e la capogruppo De Petris che ha il dono politico “di non mandarla a dire”, di aver contribuito con straordinaria determinazione a chiarire quale sia oggi la posta in gioco sottesa all’intemperanza falsamente efficientista di Renzi. Il premier ne fa esclusivamente una questione di benefica semplificazione della complessa macchina statale, di accelerazione delle decisioni, di modernizzazione del Paese. Così l’Italia decolla, secondo il premier, e si risparmiano parecchi quattrini.

Ma dietro al belletto del fare ciò che “serve agli italiani”, un mantra reiterato in tutte le salse, il premier camuffa la sua ossessione per il primato della governabilità, che è altra cosa dall’arte o dal nobile mestiere del governare, perché l’ossessione della governabilità contiene l’insidia dell’adeguamento tout azimut alle ricette neoliberiste, l’idea che ci si debba definitivamente arrendere al mercato e alla sua supremazia, che richiede estrema velocità nello sbarazzarsi di ciò che fa ostacolo o resiste alle scelte dello Stato orientato da queste priorità.

La riforma del Senato, per come è uscita dalla Commissione, va messa accanto alle legge elettorale perché solo così si può valutare sia a che cosa approdi la fine del bicameralismo perfetto sia che cosa abbia in testa Renzi sul rapporto tra il potere dell’esecutivo e quello del legislativo. Ne abbiamo ampiamente parlato. Se si elimina un ramo del Parlamento, come per altro sarebbe stato necessario fare da tempo, dice Sel, occorre però che del ramo che sopravvive si rafforzi il carattere rappresentativo e, in epoca di crisi della rappresentanza e di domanda popolare di partecipazione, si qualifichino e facilitino gli strumenti della partecipazione diretta di cittadini e cittadine. Esattamente il contrario di ciò che è avvenuto con il testo di riforma del Senato e con l’Italicum legge che strangola l’accesso alla rappresentanza delle forse minori e attribuisce premi di maggioranza da regime autoritario. E visto poi che tutti fanno appello a quello che di cui hanno bisogno gli italiani, che come è noto sono tutt’altro che un gruppo nazionale indifferenziato quanto a livello di bisogni, aspirazioni, status sociale, ha fatto bene Sel a ricordare che in tema di modifiche costituzionali c’è da mettere urgentemente in discussione l’articolo 81, che ha accolto, il 20 aprile 2012, con una velocità bipartisan e supersonica la “regola aurea” del pareggio di bilancio. Preferibilmente con norma di rango costituzionale, pontificarono a Bruxelles, ma non tutti i Paesi dell’Ue hanno accolto il suggerimento di un tale rango. Noi sì. Che dire se non che, per dirla con Sel, è arrivato il momento di decostituzionalizzare il dannosissimo pareggio di bilancio?

Insomma si gioca una partita non facile in questi giorni. Ma è una partita tutta democratica e di nesso con grandi questioni sociali, come appunto tutto ciò che consegue al famigerato pareggio. Sono soprattutto questi gli aspetti da rendere evidenti.

 

Commenti