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Giovedì, 5 novembre 2015

Guerra in Afghanistan, il “Grande Gioco” prosegue

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Il Ministero della Difesa italiano nei giorni scorsi, rispondendo con il sottosegretario Rossi a un’interrogazione parlamentare, ha fatto sapere che le nostre truppe resteranno in Afghanistan ancora per un bel po’, forse fino alla fine del2016, e oltre, e nel frattempo sarà incrementato anche il numero dei militari là impegnati. Tutto questo allo scopo di «compensare» alcune defezioni dei Paesi alleati, soprattutto la Spagna, che ha deciso di mettere la parola fine al proprio impegno militare. Ovviamente la decisione del Governo italiano è stata presa senza previa discussione in Parlamento né tantomeno decisione o almeno voto di orientamento delle Assemblee. Il Governo, sempre secondo quanto riferito da Rossi, ha deciso di rimodulare la prevista pianificazione di rientro dall’Afghanistan e di aumentarne la consistenza numerica nell’ultimo trimestre» del 2015, verificando intanto sul piano tecnico la possibilità di continuare anche nel prossimo anno. Che cosa c’entri il piano tecnico rimane un passaggio alquanto criptico.

L’Afghanistan continua a essere zona di combattimento e di guerra latente: zona incontrollata e insicura per le truppe occupanti e per il sistema di potere locale filo Usa, che gli Usa hanno immaginato e costruito come soluzione a loro favorevole. Soluzione da tenere quindi sotto controllo con determinazione, senza lasciarsela sfuggire, perché è lungo quella faglia, tra l’Occidente e l’Oriente, che si gioca, in parte rilevante, la partita del futuro. I rapporti tra Usa e Cina, soprattutto, senza dimenticare il resto, a cominciare dal ruolo crescente della Russia.

Poiché non c’è stabilizzazione in Afghanistan e non ce ne sono neanche lontanamente i segni, il Paese asiatico – questo il mantra retorico degli Usa e dei loro alleati, Italia come sempre fra i primi – non può essere lasciato a se stesso, alla mercé dei Talebani e dei gruppi di oppositori di ogni tipo – molte potenti tribù in particolare – che si affollano tra le montagne dell’Hindukush e continuamente scendono sul piede di guerra per tentare l’avventura di riprendere il completo dominio del territorio.

Le truppe statunitensi resteranno là perché le forze armate afghane “non sono ancora pronte” ad affrontare da sole la guerriglia. Così ha annunciato, con qualche ipocrisia, il Presidente Obama, smentendo le precedenti assicurazioni secondo cui l’ultima data del ritiro dei contingenti Usa non sarebbe potuta andare oltre il 2015.

L’Afghanistan è stato invaso nel novembre del 2001, prima dell’invasione dell’Iraq e subito dopo l’11 Settembre. Quattordici anni ininterrotti. E’ una guerra persa, va detto per l’ennesima volta, ripetendo quanto abbiamo detto e sottolineato più volte, perché se una guerriglia dotata di una potenza di fuoco mille volte inferiore a quella del Pentagono e della Nato continua a rendere impossibile una stabilizzazione reale del Paese, vuol dire che c’è dell’altro, più profondo e radicale, che ostacola intendimenti e piani degli Usa.

Una guerra persa ma destinata a mantenersi all’infinito, concepita per realizzare l’imperiale Nuovo Ordine Mondiale del Presidente Bush e trasformatasi nel tassello del nuovo disastroso disordine mondiale, del caos sempre più globale che sembra mettere radici in modo diffuso e a largo raggio, alimentandone altro e altro ancora. Ma forse era questo l’intendimento di Bush: fare implodere gli assetti fino ad allora esistenti, alimentare uno stato di guerra a bassa intensità, frammentata e slabbrata, dove poter sviluppare nuove avventure militari e poi vedere come ristabilire nuovi e più favorevoli rapporti di forza.

Obama lavora per cercare qualche nuova soluzione, per mettere insieme un nuovo equilibrio delle potenze. Il passo con l’Iran, da questo punto di vista, è già importante come avvio e forse conferma che il Presidente americano si muove in questa logica, per disimpegnarsi in qualche misura dal coinvolgimento diretto in zone di scontro aperto. Nelle intenzioni iniziali del suo mandato il disimpegno a largo raggio sembrava essere il suo disegno ma le cose stanno andando come vediamo: un vero e proprio caos che rischia di autoalimentarsi all’infinito coinvolgendo una zona vastissima tra l’Asia, il Medio Oriente, l’Africa. Anche a lui, a Obama, le cose sfuggono di mano e non potrebbe essere diversamente: le eredità di guerra sono eredità quanto mai pesanti e ingombranti. Così In Afghanistan si resta, perché – pensa il Pentagono e si è convinto il Presidente – andarsene significherebbe dare fuoco alle polveri. Ma restare significa soltanto tenerle sotto il tappeto, pronte a prendere fuoco in ogni occasione.

L’Italia si mette una volta di più a disposizione. Il sottosegretario Rossi ha ricordato quanto il Parlamento dovrebbe sapere a menadito, cioè le tappe del nostro coinvolgimento i Afghanistan. L’Italia è presente in quel Paese dal 2003 e il contingente, schierato a Kabul e a Herat, è attualmente inserito nella missione Nato Resolute Support, che dal 1° gennaio 2015 ha sostituito la missione Isaf ormai conclusasi. E ha ripetuto ovviamente anche lui il mantra della missione finalizzata a che il Governo afghano garantisca l’effettiva sicurezza in tutto il Paese. Per questo Rossi ha ricordato anche l’intervento della ministra Roberta Pinotti alle Camere, il 29 luglio scorso, quando la responsabile della Difesa dichiarò che, perdurando le esigenze di supporto alle forze di sicurezza locali, il governo aveva deciso di mantenere una propria presenza militare nella regione di Herat, posticipando di alcuni mesi il ripiegamento del contingente su Kabul. Poiché il presidente Obama aveva nel frattempo già espresso la volontà di prolungare la presenza militare in Afghanistan anche nel corso del prossimo anno, anche l’Italia, avvertì Pinotti, avrebbe messo a punto una valutazione tecnica e politica relativa all’ipotesi di proseguire l’ impegno anche per il prossimo anno.

Ovviamente la foga di rapido accodamento alle decisioni del Pentagono avvengono da parte della ministra e del Governo senza che in nessuna sede si svolga una reale discussione sulle ragioni, le convenienze, gli interessi, i calcoli di spesa, la congruità della partecipazione italiana, oltre ogni tempo massimo, a un’impresa militare che è stata devastante da molti punti di vista e soprattutto ha reso non più intellegibile nel sentimento popolare e nell’opinione pubblica, il significato dell’articolo 11 della Costituzione. Anche i principi più belli, i valori più alti, le intenzioni più nobili, quando la cultura, la politica, la pratica istituzionale, l’informazione democratica non li alimentano, deperiscono e muoiono di inedia e oblio. E anche il ruolo del Parlamento, per le stesse ragioni, viene svuotato di ogni incidenza e potere. Sarà informato, assicura Rossi, a partita chiusa, perché, spiega sempre il sottosegretario, «L’eventuale disponibilità del Paese a continuare la missione dovrà comunque tenere conto delle valutazioni e delle decisioni che saranno collegialmente prese in ambito Nato». Appunto: partita chiusa su cui il Parlamento ha e avrà ben poco d dire e eccepire. Se non dettagli.

Nel frattempo è arrivato il sì degli Stati Uniti all’Italia per l’autorizzazione a dotarsi di due droni armati, il cui costo è di 129 milioni di dollari. Il business delle armi, armamenti e affini continua. All’infinito.

Commenti

  • Edoardo Trotta

    Confesso di non aver le idee molto chiare. I recenti avvenimenti sono chiaramente il frutto delle decisioni folli di Bush ma anche e soprattutto dell’Inghilterra che dalla Guerra delle Malvinas in poi ha visto la destabilizzazione di molti paesi. Italia, Germania e Giappone hanno avvallato politiche di guerra entrandoci marginalmente. La Francia ci ha messo del suo.
    Oggi per l’Italia non è più così, siamo protagonisti, in negativo, di scelte sbagliate.
    Sul “Corrierone” come nel 1914 vengono fatte proposte folli di coinvolgimento italiano.
    Tuttavia non possiamo non osservare che una serie di interventi ONU hanno risolto, seppure parzialmente, situazioni a rischio. I limiti di tali interventi sono evidenti, il poco POTERE, la facilità con cui stati deboli (anche l’Italia) si vendono al maggior offerente, l’indifferenza se non l’ostilità degli stati produttori di armi.
    Tuttavia questo è l’unico modo per arrivare ad un minor stato di guerra, con buona pace dei mercanti di morte.