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Lunedì, 30 marzo 2015

Ingrao, la sporgenza di un secolo

ingrao

Pietro Ingrao compie cento anni e Mario Tronti, presidente del Centro per la riforma dello Stato che di Ingrao è stata una creatura, presenta nel segno della sobrietà l’intenso calendario di iniziative (la prima il 31 alla Camera) organizzate in suo onore, perché di fronte a un compleanno che ha “qualcosa di eccezionale” è meglio tenere bassa l’enfasi. E’ un modo per essere fedeli a Ingrao e alla sua lingua politica e poetica, mai un tono sopra le righe di fronte agli eventi eccezionali che ha avuto la ventura di attraversare nel corso della sua esistenza. Tuttavia, per chiunque Pietro l’abbia incontrato pur solo una volta, è impossibile tenere bassa anche l’emozione, anzi la gioia perché lui è sempre lì con noi e con questo suo compleanno certamente vuole ancora dirci qualcosa.

1915-2015: un secolo breve, o un secolo lungo? O un secolo che si allunga oltre la sua durata, come la sporgenza di un tempo che non si chiude? E se fossero metafora di questa sporgenza le cento candeline di Ingrao: di uno sporgersi del Novecento oltre se stesso, malgrado tutte le decretazioni d’urgenza della sua fine snocciolate a destra e a manca dal 1989 in poi? Ingrao ha sempre avuto, per il “suo” Novecento, un attaccamento dichiaratamente appassionato: alla celebre definizione di Hobsbawm ha sempre preferito la propria, di un secolo “grande e tragico”, due attributi, o meglio due pieghe, di uno stesso nome, “politica”. Certamente la sua è una biografia pienamente, emblematicamente novecentesca, racchiusa fra l’irresistibile spinta “fisica e emotiva” – così Ingrao l’ha in seguito raccontata – alla libertà contro la violenza nazifascista e la fine dell’esperimento sovietico e del Partito comunista italiano. E certamente il lessico con cui ha pensato la politica – ortodossia ed eresia; lavoro e capitale; masse e potere; rappresentanza e partito – fa parte di una costellazione concettuale a sua volta tutta novecentesca. Tuttavia è proprio sul bordo della fine del secolo “grande e tragico” che lo sguardo di Ingrao, a dispetto della vulgata che da allora lo dipinge rivolto all’indietro, si sporge invece decisamente in avanti.

Fu chiara, questa sporgenza, a quanti – pochi – seppero leggere nell’opposizione di Ingrao alla svolta occhettiana, e più in generale alla lettura prevalente della catena di eventi inaugurata dal crollo del Muro di Berlino, una istanza non di conservazione ma di differente innovazione rispetto alla via intrapresa allora con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. Ma a distanza di venticinque anni, quella sporgenza si è fatta adesso più visibile. L’ultimo dei volumi ingraiani curati per il centenario da Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti per Ediesse raccoglie, sotto il titolo Coniugare al presente, per l’appunto scritti, interviste e interventi dell’Ottantanove e seguenti, che oggi è più facile – e ancor più doveroso – sottrarre alla pretestuosa contrapposizione fra “nuovisti” e “frenatori” (Matteo Renzi non nasce dal nulla) in cui restarono presi allora. Che il mondo stesse cambiando e domandasse alla sinistra di cambiare erano i fatti a dirlo: in discussione non era questo, ma l’interpretazione e la direzione da imprimere al cambiamento. E su entrambe, ora si vede bene, era Ingrao ad avere la vista più lunga.

Basta citare soltanto alcuni degli oggetti su cui si posa. Le società dell’Est , dove con il disfarsi dei “regimi dittatoriali” e dei confini artificiali si affacciano forme di aggregazione ambivalenti, democratiche o regressive, e dunque “bisognerà vedere chi vince e chi perde, e quale volto assumerà la spinta che vince”. L’immobilismo dell’Europa di fronte al disfarsi del bipolarismo, e l’immobilismo delle sinistre europee di fronte a processi fin da allora prevedibili: “l’internazionalizzazione dei sistemi d’impresa, la dislocazione dei capitali, la riconfigurazione dei mercati, la precarizzazione del lavoro metteranno alla prova i sistemi di tutela delle organizzazioni sindacali e politiche dei lavoratori”, sì che la frontiera inaggirabile diventa la costruzione transnazionale di “una nuova Europa sociale”.

L’onda migratoria dal Sud del mondo anch’essa prevedibile, di fronte alla quale “che faremo? ci difenderemo con il razzismo?”. E in Italia, alla fine della cosiddetta prima Repubblica, la crisi acclarata e definitiva della forma-partito, la sostituzione della “lingua perduta della politica” – così in una intervista che mi diede nel ’92 – con le tecniche della comunicazione, e la necessità conseguente di inventare da capo i luoghi, più culturali che politici, di formazione di un “comune sentire” e di un comune linguaggio, senza di che “resta solo il conformismo delle classi vincenti” e la battaglia per l’egemonia è persa: “Grande è la sfida: o ci stiamo, o non ci lascerà sopravvivere”.

E’ uno dei due esergo che aprono il libro. L’altro, tratto dall’intervento di Ingrao contro la proposta di scioglimento del Pci presentata da Occhetto dopo la Bolognina, motiva la necessità di tenere aperto “l’orizzonte del comunismo”, come lo aveva definito negli stessi giorni Cesare Luporini, proprio al tramonto del comunismo realizzato novecentesco. “Sta sviluppandosi nelle società contemporanee occidentali un bisogno di beni che non sono quantificabili con il metro del danaro né misurabili con il criterio del mercato. Bisogni di comunità umana diretta; esigenze di affettività; volontà di prestazioni gratuite; domande di liberazione da un lavoro colpito da nuove forme di alienazione. Tenere aperto l’orizzonte del comunismo significa, già da ora, riconoscere il valore di questi bisogni, sperimentare germi di vita comune in cui essi possano esprimersi”.

Anno di grazia 1989. Ne passeranno una ventina prima che il lessico del comune si faccia strada nei movimenti d’inizio millennio, e prima che l’espressione “orizzonte del comunismo” ricompaia, del tutto inconsapevole di questa genealogia italiana, nel titolo di un libro della filosofa americana Jodi Dean, The Communist Horizon. Potenza dell’inconscio geopolitico occupato e preoccupato dalla caccia agli spettri di Marx, chioserebbe Derrida. O forse, sporgenza di un secolo oltre la propria fine troppo anticipata. Buon centenario, Pietro.

dal sito Huffington Post

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