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Venerdì, 22 maggio 2015

La scuola del nuovismo realizzato

Palazzo Chigi - Il ministro Giannini illustra le linee guida sulla scuola

Chiesi al mio professore di Storia e Filosofia perché dicesse cose così diverse da quelle che avevo sentito dire sullo stesso argomento di storia romana dalla professoressa di Greco e Latino. Lui si congratulò con me perché avevo capito bene la diversità del loro giudizio e poi mi spiegò con grande semplicità che lui e la collega la pensavano diversamente su varie cose e che questo era un bene anche per noi, perché, se avessimo messo la necessaria attenzione a seguire le lezioni in classe e a capire le argomentazioni degli insegnanti, avremmo imparato molto più facilmente a pensare con la nostra testa.

Era un’altra fase della storia nazionale, colma di richiami positivi per chi guardava alla Costituzione come a una grande bussola dell’agire pubblico.

La riforma della scuola voluta dal governo Renzi porta a compimento un percorso negativo già avviato ormai da molti anni, mal contrastato o in qualche misura anche accettato e spesso legittimato dalla sinistra, ben prima che spuntasse l’astro della leadership renziana. La riforma che la Camera ha approvato in prima lettura in questi giorni è infatti segnata senza infingimenti da una chiara concezione neoliberista della spesa pubblica, visibile nel rapporto tra pubblico e privato, che è a vantaggio del secondo; nel disinvestimento sulla dimensione democratica e partecipativa alle scelte, da parte di tutti ma soprattutto da parte delle nuove generazioni; nel ruolo compiutamente manageriale del super dirigente, a cui vengono attribuiti poteri fuori misura rispetto al personale docente, e in molto altro.

Si è affermata una concezione ormai diventata dominante, che è comune a molti  governi dell’Ue ma che in Italia produce – e peggio produrrà con la riforma Giannini –  frutti particolarmente avvelenati per tutto quello che riguarda questo settore. Scuola, formazione, ricerca: da una parte nicchie del privilegio, dall’altra lande senza futuro. La proposta del cinque per mille, cartina di tornasole di questa impostazione, bocciata alla Camera verrà riproposta quanto prima: così ha assicurato la ministra Giannini.

Cancellare via via la memoria della scuola della Costituzione: questa la partita che si è giocata per i lunghi anni, in cui la scuola pubblica andava deperendo e su cui alla fine è intervenuto Renzi. Ma, occorre dirlo, il premier non può proprio vantare il primato dell’idea e della sfida su questa partita. Il terreno era già stato ampiamente smosso. Può solo dire, se riuscirà a far approvare la legge anche al Senato, di aver vinto una partita sicuramente decisiva per il suo punteggio di realizzatore del nuovismo.

Giustamente, dal suo punto di vista, Maria Stella Gelmini, già ministra della Scuola per l’ultimo governo Berlusconi, ha dichiarato che l’attuale premier porta a compimento la proposta di riforma che lei stessa e il suo governo avevano vanamente cercato di far passare.

Con semantica di altri tempi, anche alla luce delle dichiarazioni di Gelmini, il frutto avvelenato che reca il nome della ministra Giannini dovrebbe essere chiamato controriforma. Ma – lo sappiamo – anche la semantica, come la storia è ridefinita da chi vince e quindi ufficialmente quella di Stefania Giannini è una riforma, anzi, come da mantra renziano , è una delle riforme che gli italiani chiedevano e aspettavano da vent’anni.

La nuova legge intende negare e cancellare definitivamente quel che resta del  grande percorso riformista, avviato in Italia dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, per dare compimento all’ispirazione della Carta. Con quel percorso si intese infatti colmare il gap esistente tra il dettato costituzionale e la realtà della scuola pubblica così come era arrivata nel secondo dopoguerra: classista e discriminatoria, ancorché pubblica. E grandi passi avanti furono compiuti, punti di eccellenza furono conquistati – soprattutto nella fascia primaria dell’istruzione – e la scuola negli anni Settanta si aprì alla partecipazione democratica e all’innovazione culturale, favorendo l’emancipazione culturale e quindi economico-sociale – perché allora le cose stavano insieme – dei settori della popolazione meno favoriti economicamente. Per la sinistra era motivo d’orgoglio quell’“anche l’operaio vuole il figlio dottore” che invece innervosiva assai i benpensanti di allora. Ma poi il percorso si bloccò e i frutti si dispersero, per gli intoppi continui di spesa, di visione strategica e di abbandono politico e sempre più programmatico della centralità della scuola pubblica. Che fu messa sotto scacco con sempre maggiore insistenza dalle scuole private e dai compromessi politici delle classi dirigenti, sempre meno costituzionalmente vincolate.

Si andò poi in netta controtendenza con l’affermarsi negli anni Ottanta, in Europa e in gran parte del mondo occidentale, di quell’ideologia di natura aziendalista e tecnocratica che spinse verso un radicale mutamento della concezione della scuola e della formazione, depotenziandone sempre più il richiamo alla logica costituzionale. La scuola pubblica infatti in modo diretto, meglio di qualsiasi altro dettato della Costituzione, metteva in chiaro – uso un tempo del passato per essere più chiara –  il senso e il valore della dimensione sociale della democrazia e la forza operativa – morale e di civiltà – di quello straordinario articolo 3 della Costituzione, che, nel secondo comma, attribuiva alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine sociale e economico “che inibiscono il pieno sviluppo della persona umana, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini”. Che cosa di più pertinente per questo compito repubblicano della scuola pubblica? Che cosa di più funzionale a promuovere la consapevolezza dei diritti che discendono dall’essere cittadino e cittadina della Repubblica? Niente, a mio parere. Il tutto poi accompagnato dalla libertà di insegnamento, pensata non solo come diritto di chi insegna ma, come è stato per intere generazioni di ragazze e ragazzi, palestra di libertà innanzitutto per loro.

Una scuola così non serve più nell’epoca in cui la tutela dei diritti costituzionali ha perso smalto e la questione sociale diventa di nuovo solo materia di benevolenza del sovrano, che se la sbriga, con l’occhio al consenso elettorale, con l’elargizione dei suoi bonus, mentre passa ormai come legittima l’idea che chi è dotato di fortuna familiare è bene che goda del privilegio di dispendiose scuole private sorrette anche dalla benevolenza finanziaria del sovrano. E le scuole dell’abbandono affondino perché non servono a nulla o a poco.
La La crisi finanziaria, dal 2008 in poi, ha accentuato tutti i lati negativi, soprattutto per quanto riguarda la concezione e la  gestione dei servizi pubblici nella quale è stata inserita in modo acritico anche l’istituzione scolastica. Una parte dei paesi europei è andata verso un rafforzamento della rete dei controlli di gestione e di qualità applicando le teorie toyotiste della customer satisfaction e della sovranità del consumatore. La scuola deve piacere alle famiglie, insomma. Da qui l’autonomia scolastica interpretata come modellistica di enti autonomi in concorrenza tra loro con un controllo esterno gestito o delegato dallo Stato al fine di garantire standard minimi nel sistema generale di istruzione. La riforma di Luigi Berlinguer si mosse in questo solco, e il progetto Aprea ne fu la logica continuazione. Governi diversi ma orientamenti analoghi su questo decisivo capitolo.

Che la scuola pubblica, nonostante tutto, continui a essere una fucina di intelligenza sociale e di esperienza umana del sapere e dei saperi lo dimostra la grande mobilitazione con cui ha risposto e ha tenuto botta al progetto del Governo.

Ma forse proprio per questo, per questo non stare al nuovo che avanza di un settore così importante, il premier Renzi vorrà mettercela tutta per silenziare l’opposizione in Senato. Ha già dalla sua parte il Presidente Gasso che, contro ogni logica istituzionale, non ha accolto la richiesta della Senatrice De Petris di permettere che una senatrice del gruppo misto partecipi ai lavori della Commissione Istruzione.

Nella foto la ministra Giannini

Commenti

  • Francesca Romana Petrignani

    Se tutto ciò servirà finalmente a compattare una categoria disgregatasi negli ultimi venti anni e a far rinascere la dignità nei docenti, allora questa riforma avrà inconsapevolmente prodotto l’esito opposto, sta a noi! In molte scuole però, già da ora, nessuno parla e già si prepara al nuovo assetto illuso di poter entrare a far parte del “regime locale”… Servono organizzazioni, che non siano quelle sindacali a cui più nessuno crede, che operino sensibilizzazione presso le scuole!
    nessuno si