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Lunedì, 29 giugno 2015

L’Europa senza la Grecia non è un continente mutilato, è un progetto fallito

atene

Una questione tecnica, il non onorare una scadenza della restituzione di un prestito, consegna uno Stato alla categoria dei “paesi falliti”. In realtà il tecnicismo di un default racconta tra le pieghe l’andamento dell’economia globale e soprattutto dei meccanismi che la regolano.

Natale del 2001, l’Argentina è alla fine del ciclo neoliberista. Il peso è agganciato al dollaro in rapporto 1 a 1, da un anno l’economia è in deflazione e da due la crescita a uguale a zero. Il FMI nega la proroga per la scadenza di un pagamento seguendo le istruzioni emanate da George Bush che vuole “dare una lezione” ai paesi indebitati. I bond argentini erano stati collocati nel semestre precedente al default a tassi che toccavano il 15 percento. I numeri macroeconomici del paese non sono però cattivi: deficit dello stato al 3 percento, rapporto debito-PIL al 70 percento. In sostanza i parametri di Maastricht, ma la morsa della deflazione, l’impossibilità di svalutare la moneta agganciata al dollaro e la mancata crescita provocano il cortocircuito. Il default sociale parte invece dalle periferie delle metropoli, dove i più poveri iniziano a saccheggiare i mercatini dei cinesi e alcuni supermercati.

Nella città, chi ha risparmi in banca corre a prelevarli ma le banche hanno chiuso gli sportelli. E’ il “corralito” (recinto per le bestie). Partono i primi “cacerolazos”, le proteste al suono delle pentole di un popolo che non ha più armi per difendersi di ciò che sta per accadere. La protesta arriva alle porte della Casa di Governo e inizia il caos. Il governo fugge, la polizia si rinchiude nelle caserme e la folla inferocita inizia a saccheggiare sistematicamente negozi e a tentare di entrare nelle banche. Sono 48 ore di terrore e di panico, finché riappare la polizia per strada e si comincia a contare i morti, ammazzati dalle pallottole degli uniformati. A distanza di tre mesi dal default, il 50 percento della popolazione è precipitata nella povertà. Sono saltate sanità, scuole e pensioni. Nascono nuovi mestieri, come quello di “cartonero”, i raccoglitori che ogni pomeriggio rastrellano la città alla ricerca di qualsiasi cosa si possa mangiare o rivendere. Nelle province del nord più povere si materializza il fantasma della fame e muoiono alcuni bambini. E questo in uno dei primi 5 produttori mondiali di alimenti.

La notte del default del 2001 non è ancora finita, un 30 percento abbondante di chi è uscito dal mondo del lavoro non è più rientrato o è rientrato con lavori che non garantiscono l’uscita dalla povertà. La negoziazione infinita con i creditori, quando pareva finita, si è riaperta perché nel frattempo i grandi fondi di investimento, chiamati in Argentina “avvoltoi”, hanno rastrellato sui mercati secondari i titoli in default del debito argentino al 10-15 percento e sono riusciti ad ottenere sentenze da una Corte di New York perché siano rimborsati al 100 percento.

Per non pagare questi fondi, aprendo di fatto una rinegoziazione di tutto il debito, l’Argentina è in default di nuovo da circa un anno. Ormai non si fa più caso, ma non sono arrivati più capitali, l’industria boccheggia per mancanza di investimenti, lo stato si arrabatta per garantire un assegno di sopravvivenza alle mamme con figli piccoli.

Dopo il default c’è vita, ma non è la stessa di prima. Le ferite sono troppo profonde per guarire. Tutto diventa provvisorio. La solitudine nella quale ti sei ritrovato al momento del crack non ti abbandona. Sei diventato un paria della “società globale”. Ti devono fare scontare la ribellione alle regole, il non avere accettato le imposizioni dei “tecnici”, chi ti conosceva ti evita. Sei solo un cattivo esempio, uno spauracchio per spaventare altri morosi. Un male necessario. Se non ci fossero i paesi falliti andrebbero inventati, secondo il pensiero del FMI.

Ora anche la Grecia rischia di entrare in questo ristretto club, ma la mossa di Tsipras davanti al muro di Bruxelles, quella di chiamare il suo popolo a esprimersi e quindi a condividere il proprio destino è l’unica mossa possibile in democrazia.

Uniti verso il baratro, si potrebbe concludere, ma se il popolo greco ha finalmente presso atto e ha capito perché le cose sono andate come sono andate e ha mandato a casa la vecchia politica, è questa la migliore risorsa per ripartire.

Non sarà un default né Angela Merkel a determinare la fine della civiltà ellenica. Non saranno Junker o Lagarde a cancellare millenni di cultura e pensiero greco dal nostro DNA.

L’Europa senza la Grecia non è un continente mutilato, è un progetto fallito. Ora più che mai la Grecia siamo tutti noi.

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