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Martedì, 24 febbraio 2015

Matteo Renzi, un anno dopo

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Dall’annuncio dell’imminente e straordinario piano per la scuola all’esaltazione di Marchionne; dai successi in Europa, non si capisce bene su che cosa ma non importa, è il suo stile, alle bacchettate sulle dita di Maurizio Landini: di tutto e di più per autocelebrarsi, nella fatidica ricorrenza del primo anno. Tutto questo mentre gli arrivavano alle orecchie le note melodiose delle lodi che l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo) intesseva in quelle ore sulla conclusione della partita decisiva per il premier italiano, chiamata Jobs Act. Lusinghiere come si conviene e chi pensa che l’impresa debba essere prevalente sul lavoro e messa al centro dell’interesse politico dei governanti.

Sono state davvero pirotecniche e a tutto campo le performance di Matteo Renzi nel dare il via al secondo anno del suo governo, nato il 22 febbraio del 2014 grazie alla nota e perfida defenestrazione in salsa post moderna dell’inquilino precedente; e poi rimasto in vita fino ad oggi, per la certificata inesistenza di qualsiasi opposizione degna di questo nome. Con al seguito, per di più, un Pd in veloce dinamica di adattamento al nuovo leader. Costi quel che costi, questa dinamica, compresi i fenomeni di allontanamento e disaffezione di importanti sezioni dell’elettorato di sempre, come le ultime elezioni in Emilia Romagna hanno dimostrato. E, soprattutto, mentre si fanno evidenti i segnali di un preoccupante indebolimento della fisiologica funzionalità degli assetti democratici del nostro Paese, che va avanti da tempo, siamo chiari, ma che Renzi implementa voracemente, perché lui della democrazia ha proprio un’altra idea. E la Costituzione del ‘48 è solo un impiccio antidiluviano.

Bisogna ricordarli questi segnali, perché il grande circo mediatico funziona performativamente per “naturalizzarli”, propinarli come cose ovvie al dibattito pubblico e allo stesso sentimento popolare, prostrato ormai dai guasti e dalle nefandezze di troppa parte della politica e, per questo insieme di disincanto, rancore, incertezza che la crisi economico-sociale alimenta, disposto ad accettare le novità assai poco democratiche di Renzi come novità positive, perché “moderne”, e in grado di dare “risposte agli italiani”, come vanno cantilenando in ogni occasione le ministre e i ministri della magica squadra della Leopolda.

Così nessuno ha niente da dire sul costante rapporto intimo e domestico di stampo populista, che il leader intrattiene su tutto con l’elettorato; sui continui insulti beffardi che indirizza nei confronti di chiunque non la pensi come lui e sull’ostentato menefreghismo rispetto alle critiche che vengono mosse dai più coraggiosi al suo operato. Per non parlare – capitolo che dovrebbe essere centrale ma pare interessare soltanto sparuti drappelli di esponenti politici e intellettuali di un altro tempo della Repubblica – della marginalizzazione del Parlamento, che l’azione del Governo intenzionalmente produce, riducendolo, a suon di decreti e voti di fiducia, a ufficio di convalida delle decisioni del premier. E, ancora, dell’inaudita tracotanza del leader di Palazzo Chigi che decide e ottiene – complice per altro lo stesso Parlamento, sotto scacco per il ricatto della fine della legislatura con cui si baloccano i renziani – di cambiare un terzo della Carta costituzionale forzando i regolamenti della Camera e procedendo nel voto ad aula semivuota per l’uscita dell’opposizione che non riesce più a far valer le proprie ragioni neanche sul piano procedurale.

Ma il focus che Renzi mette al centro della sua visione del mondo e del suo operare è quello che giustamente segnala Maurizio Landini, con un enfasi oratoria che è propria del leader della Fiom ma che in questo caso è quanto mai pertinente. Renzi ha infatti ingaggiato un vero e proprio corpo a corpo con le forme sopravvissute in Italia di quelle specifiche rappresentanze sociali chiamate sindacati, che a lui fanno l’effetto dell’orticaria acuta. Non si tratta soltanto della più generale tendenza neoliberista, oggi dominante, di togliere di mezzo i corpi intermedi e di concentrare il comando economico-politico in organismi oligarchici e apicali, formatisi per auto-poiesi – il “club” dei governi europei e le sue diramazioni nei contesti nazionali. Si tratta, per quanto riguarda l’Italia, di sbarazzarsi una volta per tutte, di quello che fino a Bersani continuava a essere, nonostante tutto, il tratto distintivo, genetico, della sinistra novecentesca italiana, incapace di misurarsi davvero con il cambio di passo della storia e le colossali trasformazioni della globalizzazione/finanziarizzazione /vittoria della ragione neoliberista, e con i disastri sociali che hanno fatto seguito, a cominciare dal blocco di futuro per le nuove generazioni, e tuttavia ancora contrassegnata – quella sinistra – dal legame sentimental-strumentale con la Cgil. Sentimentale per storia e ancora consenso elettorale, strumentale per convenienza politica, per mettere in scena, quando necessario, l’opposizione di maniera alle politiche più audacemente neoliberiste che Berlusconi, nel suo ventennio, aveva in programma di realizzare e che alla dirigenza Pd faceva comodo contrastare almeno un po’, pur sapendo, tutti loro, di aver assorbito da tempo l’intrinseca ratio neoliberista e non avendo nulla da dire di diverso. Perché la sconfitta di tutta la sinistra novecentesca ha questa radice, ci piaccia o non ci piaccia. E da qui bisogna ricominciare a ragionare.

Renzi vuole liberarsi di quel dna filo-sindacale, perché è un riferimento simbolico in contrasto con la sua idea del “partito della nazione”, e perché non vuole essere condizionato dall’obbligo di trattare e mediare con le rappresentanze di quella parte della società – il lavoro nella sua multiforme complessità e segmentazione – che la norma neoliberista riduce a risorsa umana a disposizione dell’impresa. Siamo nell’epoca caratterizzata dai processi di precarizzazione, desindacalizzazione e de-welfarizzazione della società e la gestione degli umani deve essere consona a tutto questo, cancellando ciò che nella modernità aveva fatto la differenza nei rapporti sociali, cioè i processi di soggettivazione del lavoro, l’invenzione, da parte di quella parte della società in campo, di strumenti di rappresentanza, di idee di trasformazione del mondo a cominciare dalla tavola dei diritti, di battaglie per modificare i rapporti di forza tra impresa e lavoratori. Tutte cose che hanno fatto sì la storia che sta dietro al Pd ma con cui Renzi, sul piano della sua personale biografia e dei suoi personali intendimenti politici, ha poco o niente a che vedere. La partita è già stata per altro in gran parte chiusa già prima di Renzi, perché l’incapacità della sinistra politica e sindacale di dare risposta alla precarizzazione del lavoro, alla moltiplicazione delle figure sociali e alla caduta dei reddito da lavoro sono tutti fattori che hanno eroso la dimensione collettiva e sociale del lavoro, così come le possibilità concrete di autonomia e di alleanza tra lavoratori. Bisogna partire – per discutere seriamente del punto in cui siamo – da ciò da cui si continua a non partire: cioè il lavoro/non lavoro delle ultime generazioni, la precarizzazione del lavoro e delle vite e la disoccupazione giovanile , enorme in Italia, che questo produce. Poi, dal punto di vista dei grandi principi che sono alla base – erano alla base – della Repubblica italiana, va sottolineato certamente che siamo alla formale decostituzionalizzazione del lavoro. Oltre a quello che la stessa completa cancellazione dell’ articolo 18 rappresenta, rispetto ai concreti diritti di una ancora importante parte dei lavoratori e delle lavoratrici, il Job Act, nel suo complesso, dice che il patto costituzionale tra capitale lavoro- come si disse per lungo tempo nella modernità, non c’è più. Fine della storia. Questo è lo scalpo che Renzi può brandire di fronte alla Troika. Continuiamo a chiamarla così, please, perché d’ora in poi sentiremo invece parlare delle “tre istituzioni”europee (Commissione europea, Bce, Fmi) perché modo di dire più amichevole, più di vicinanza e perché, mai come oggi, gli artifici del politically correct servono a neutralizzare la forza delle critiche che vengono dal basso. E dopo la vittoria di Tsipras e la complessa fase che si apre in Europa, la Troika, per spuntarla al meglio, deve dotarsi, verso il resto dei popoli dei Paesi europei, soprattutto quelli mediterranei, della finzione di un volto più accettabile dal punto di vista istituzionale e democratico.

Anche la Troika, ovviamente, ha gradito molto la grande riforma “strutturale” del Jobs Act. Da Bruxelles ci assicurano che d’ora in avanti tutto andrà per il meglio.

 

Commenti

  • Guido Conti

    Penso che questo scritto sia, pur incompleto, un importante grosso pezzo della questione che abbiamo davanti e che per debolezza ideologica non riusciamo a “strutturare” nel nostro campo…Incompleto perchè a mio parere non si può analizzare il “renzismo” senza, almeno in questo caso, declinarlo come prodotto, il più sofisticato, dell’antipolitica nata col craxismo, populisticamente cambiata da Bossi, generalizzata dal berlusconismo e accentuata simbolicamente dallo scarto 5stelle…..La reazione generazionale, della mia generazione politica, a questi 30 anni, non poteva essere che tale, se abbiamo in mente che il vero cancro dell’umanità, uscita dai trentanni gloriosi del conflitto capitale-lavoro divenuto poi patto tra produttori, é rimasto in metastasi e si chiama ideologia del profitto anche quando non tratta di denaro….ma di potere gerarchico, di sopravvivenza autorefenziale ecc…Per questo motivo penso che la “ropture” del millennio appena cominciato, sia quella di non correre dietro a niente e nessuno, così come mi sembra sia l’idea greca, quella spagnola e vedremo se anche quella portoghese ed irlandese…Cioè il tema delle alleanze non può più essere subordinato alla tradizione, all’appartenenza, alla storia del ‘900…ma concretamente al REALE del socio-sistema capitalistico che ha trasformato il lavoro in rendita e quindi ha cambiato i rapporti di forza conscio e certo della necessità-bisogno di consumismo esibito delle persone….Questo é un argomento che sembra tabù anche nel nostro campo ma penso sia un tema di fondo da affrontare al più presto magari riscoprendo quell’assioma “il personale è politico” che abbiamo dimenticato quasi tutte/i troppo in fretta….Dopo la rivoluzione francese e quella russa, possiamo pensarne una non violenta accettando che il pianeta terra ha subito devastazioni, alcune forse irreversibili e che quindi il tempo rimasto ci obbliga a “correre” comunque….”L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione” scrisse Ernst Bloch, e io modestamente rimango d’accordo con lui….
    Un saluto speranzoso!!!