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Lunedì, 20 ottobre 2014

Nassiriya, come in un gioco dell’oca

Militari italiani

La ministra della Difesa Roberta Pinotti tutto può aver dimenticato della bushiana guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein e tutto anche delle bugie internazionali sulle armi di distruzione di massa, che alla guerra offrirono copertura e giustificazione. Ci credettero tutti, compreso il governo italiano, anche se gli ispettori dell’Onu smentivano e tutti sapevano che in realtà si trattava soltanto di balle propagandistiche, pro intervento statunitense. Può aver dimenticato tutto, ma sicuramente Pinotti non ha dimenticato Nassiriya e il pesante prezzo di sangue che il nostro Paese pagò in quella località nel sud dell’Iraq, in seguito al sanguinoso attentato all’edificio che ospitava il presidio dei carabinieri e che costò la vita a diciassette militari dell’Arma e a due civili. Né può aver dimenticato le vittime civili irachene cadute per responsabilità della Italian Joint Task Force dei Lagunari, ancora a Nassiriya, nella battaglia dei Tre Ponti, che fece allora molto discutere perché svelava la vera natura della missione italiana e fu al centro di un’indagine della Procura militare di Roma.

E forse proprio perché Nassiriya ha avuto il peso che ha avuto nella storia recente del nostro Paese, la ministra Pinotti evita oggi di affrontare in modo esauriente le questioni che intorno a quella provincia hanno cominciato a circolare e di cui il settimanale l’Espresso ha fornito un’ ampia informazione. La ministra, intervenendo davanti alle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato, ha seccamente dichiarato che sono destituite di ogni fondamento le indiscrezioni su un “nostro prossimo impegno a Nassiriya” e ha illustrato il previsto contributo italiano in termini di numeri, parlando di un contingente complessivo di circa 280 addestratori che «andrebbero, secondo la ministra, ad operare nei luoghi concordati con le autorità irachene e i Paesi della Coalizione internazionale, presumibilmente ad Erbil», nel Kurdistan iracheno. E’ più facile far digerire al Paese l’ennesimo impegno militare se al centro si mette la necessità di aiutare chi si spende oggi con eroismo contro il Califfato nero. Tanto poi si fa altro o anche altro. Come da prassi.

“L’Italia ritorna a Nassiriya per combattere l’Is” è l’emblematico titolo del servizio pubblicato dall’Espresso. Il settimanale ha preso doverosamente atto della smentita della ministra, confermando però on line le fonti delle notizie pubblicate nell’articolo. Ha così ribadito che quanto scritto lo ha appreso dal governo di Madrid, secondo cui ci sarebbe in ballo una missione congiunta italo-spagnola con il compito di formare un’intera brigata dell’esercito nazionale iracheno. Secondo una tale ricostruzione, l’aiuto alle forze curde non è proprio messo in conto. Italiani e spagnoli, operando “spalla a spalla”, sempre secondo Madrid, si dovrebbero occupare anche di riattivare alcune basi aeree irachene per “le necessità dell’alto comando statunitense”. Sempre dall’Espresso si apprende anche che fonti del governo di Baghdad hanno confermato al settimanale che militari italiani e spagnoli opereranno anche nella base di Talill, sempre nella regione di Nassiriya. Attrezzare adeguatamente le piattaforme necessarie per le azioni del Pentagono, che gli alti ranghi vogliono svolgere di nuovo sul campo e Obama vuole limitare ai raid aerei.

L’Italia rischia insomma di rientrare di nuovo malamente in questo infinito gioco dell’oca. Che si torni a parlare di Nassiriya nel modo in cui la notizia è stata affrontata, in una sede – audizione della ministra competente di fronte alle competenti commissioni parlamentari – che richiederebbe il massimo di trasparenza, chiarezza, approfondimento dei problemi, è emblematico di come nel nostro Paese continui a essere affrontata la politica militare/internazionale. Il Parlamento continua a essere malamente informato e solo su aspetti secondari, relativi a decisioni prese altrove. Mai vengono discusse questioni politiche dirimenti, tutto è per lo più limitato a dati tecnici e numerici, che spesso servono a nascondere impegni molto più sostanziosi; non impostazioni globali, preoccupazioni geopolitiche, mosse diplomatiche ma aspetti insignificanti o retoriche insulse. Non c’è ancora, dopo un tempo ormai infinito di missioni militari, retorica del peace keeping e militare, nessuna legge radicalmente di indirizzo sull’intera materia, discussa e votata, sul ruolo delle Forze armate nei nuovi scenari globali e nei mutamenti dei rapporti internazionali e sulla logica politica, il senso, la pratica concreta delle missioni militari in rapporto; legge che vincoli strettamente l’azione del governo e offra al parlamento i mezzi puntuali per verificare che l’esecutivo si muova secondo la ratio e nei limiti della legge. Per non parlare poi di che cosa voglia fare l’Italia in rapporto all’Europa, il contributo che voglia dare perché l’Ue di doti di una propria politica estera.

Le questioni di fondo vengono discusse ormai altrove, nel Consiglio supremo di Difesa in particolare, che da strumento a disposizione del Presidente della Repubblica per essere informato sull’andamento delle cose, è diventato una sede vera e propria di consultazione, orientamento, decisione. Vi partecipano infatti tutti i ministri più importanti, oltre al Presidente, al premier e al Capo di stato maggiore della Difesa. Il Parlamento è chiamato ad ascoltare ministri in audizioni di una superficialità sconfortante.

Quando, con Bush figlio, cominciò a muoversi la willing coalition per la guerra contro l’Iraq, anche l’Italia – il governo (2003) era allora nelle mani di Silvio Berlusconi – dichiarò immediatamente la propria disponibilità a farne parte, manifestando la volontà di inviare un contingente a Baghdad per far fronte alle necessità della popolazione civile. Ma poi, senza fornire nessuna spiegazione, la missione militare, con compiti non più propriamente umanitari, fu spedita a Nassiriya. Il contingente andò là, per tutt’altre ragioni, come era ovvio, soprattutto perché là, fin dai tempi di Saddam Hussein, erano in gioco potenti interessi petroliferi dell’Eni e già c’erano stati importanti accordi in via di definizione con il governo del rais. Tutto venne congelato per via della guerra ma Roma pensava che una presenza italiana in loco avrebbe potuto rendere più facile all’Italia riavere voce in capitolo nel post regime.

E furono calcoli ben fatti, che hanno portato a quello che c’è oggi. Nel novembre 2009 fu firmato l’accordo preliminare tra il governo iracheno per il ricchissimo giacimento di Zubair e l’Eni, capogruppo di un consorzio internazionale composto da Occidental Petroleum Corporation, Korea Gas Corporation e Missan Oil Company. Il giacimento è diventato remunerativo nel giro di un anno e oggi la produzione è di 320.000 b/g e si lavora per portarla ad 850.000 entro il 2016 come annunciato dall’ormai ex primo ministro iracheno, Nuri al-Maliki, e l’Amministratore Delegato di Eni, Paolo Scaroni, a margine di un incontro a Baghdad tenuto il 2 settembre dello scorso anno.

La guerra è sempre un miscuglio di ragioni per conoscere le quali non bisogna arrendersi. L’Is, non ci stancheremo di ripeterlo è progenie diretta della guerra infinita di Bush – così lui stesso chiamò le azioni belliche seguite all’11 settembre – e di tutte lergioni che c’erano dietro, compresa l’insipienza degli Usa nel fare almeno il mestiere di Paese occupante, sforzandosi di trovare soluzioni adeguate a contrastare l’evidenza di una progressiva frammentazione dell’Iraq su base etnico-confessionale (una vera e propria «balcanizzazione» del Paese), che la politica di Washington alimentò, sia permettendo la messa al bando e l’umiliazione della parte sunnita del Paese sia anche addirittura ostacolando chi, come il generale Petraeus, aveva cercato invece di svelenire i rapporti tra sunniti e sciiti e di riequilibrare in questo senso il governo del Paese.

Il ricorso alle armi – o il regalare armi scadute – non può essere spacciato per una strategia politica in grado di delineare una soluzione al disastro dell’area, la via per mettere su una nuova governabilità di quella regione. Soprattutto per contrastare con effetti immediati l’Is, che non ha la strutturazione di uno Stato, una linea di frontiera che una nuova eventuale willing coalition possa scavalcare per issare da qualche parte una bandiera al posto di quelle nere. Ma possiede una decisiva, pervasiva capacità di presenza sul territorio; ha a disposizione ingenti proventi finanziari dal mercato nero del petrolio, ricche forniture di armi da tutte le parti, compresi i depositi abbandonati delle guerre precedenti; esercita una forza d’attrazione non indifferente in loco e nei confronti dei cosiddetti foreign fighters , di provenienza occidentale, che costituiscono il lato spiazzante e inquietante, iper moderno, come la globalizzazione impone, della performance mediatica dell’Is. Le asettiche, e per questo ancor più terrificanti decapitazioni, parlano di questa performativa capacità dei miliziani di arrivare altrove. E soprattutto, per il momento, l’Is può trarre vantaggio dall’equivoco di fondo che sta alla base dell’intera vicenda. Molti Paesi infatti, stando alle dichiarazioni ufficiali, vogliono sconfiggere l’Is ma non tutti lo vogliono per lo stesso motivo e non tutti giocano la stessa partita. Emblematica – ma è soltanto un esempio – è la Turchia, Paese decisivo, sul piano militare e politico, per qualsiasi azione nella zona, che tuttavia decisamente non ama i Curdi del Pkk turco e i Curdi in generale e ne teme le rivendicazioni autonomiste o indipendentiste più di quanto non tema i miliziani dell’Is. Tuttavia l’estrema fluidità della situazione e i rischi ad essa connessa può suggerire aggiustamenti tattici da parte dei vari attori interessati all’evoluzione della vicenda jiadista. L’annuncio del ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, che il governo turco è disposto a concedere alle forze peshmerga curde di attraversare il confine per raggiungere Kobane», va in questa direzione e apre al momento attuale una nuova prospettiva, su cui per altro lo stesso ministro ha spiegato che le discussioni dalla loro parte proseguono. È stata comunque accolta la richiesta del presidente del Kurdistan iracheno Massud Barzani di consentire alle forze peshmerga di passare attraverso il territorio turco per aiutare i miliziani delle Unità di protezione del popolo (Ypg).

Per quanto riguarda Washington, i droni e ora gli elicotteri Apache, il cui uso è stato autorizzato nei giorni scorsi dalla Casa Bianca, costituiscono con tutta evidenza solo una misura tampone e non risolvono le questioni strategiche. Il contrasto tra Barack Obama e il Pentagono riguarda ormai proprio la natura dell’intervento e sta diventando evidente. Gli alti ranghi militari sostengono che solo un intervento di terra può realizzare l’obiettivo di sconfiggere il Califfato. Il presidente invece non vuole un coinvolgimento diretto di questo tipo, spera che gli alleati facciano la loro parte, inviando i contingenti sul campo. In attesa della svolta, punta ad assicurare un relativo contenimento dell’espansione dell’Is, con la speranza che il nuovo premier iracheno, al-Abadi, si orienti decisamente a una nuova politica nazionale, che rimetta insieme i pezzi del Paese e sani la frattura tra sunniti e sciiti. Svelenire i pozzi dell’odio.

Insomma ci sarebbe molto da chiarire, discutere, definire. Materia, ci ostiniamo anche qui a dire, di una proposta di Conferenza internazionale dell’area, in capo agli attori principali di quella decisiva parte del mondo ma con responsabilità di tutti. L’Europa potrebbe assumere la responsabilità della proposta e dell’insistenza politico-diplomatica a che si faccia. In alternativa c’è quello che c’è. Oppure, come con qualche cinismo suggerisce sul Corriere della Sera, Sergio Romano, espertissimo della materia mediorientale, c’è solo da aspettare che questa guerra di nervi e di logoramento faccia il suo corso e i miliziani neri si stanchino di morire per un obiettivo che è e resta irraggiungibile.

 

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