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Martedì, 13 settembre 2016

Non è solo Melito Porto Salvo. Sessismo, mafia e omertà

INAUGURATO LO SPORTELLO DI ASCOLTO PER LE DONNE VITTIME DI VIOLENZA DOMESTICA  PRESSO LA FONDAZIONE IRCCS POLICLINICO MANGIAGALLI

Non credo alla casualità. E anche se tre storie non bastano a definire un sistema, penso che proporvele una dietro l’altra sia utile ad aprire una riflessione sulla modalità e il contesto in cui le violenze che sto per raccontare sono avvenute.

Il primo caso. Anna Maria Scarfò.
La storia inizia nel 1999, quando lei ha appena 13 anni. Siamo a San Martino, piccola frazione di Taurianova, comune in provincia di Reggio Calabria. Anna Maria si innamora di un ragazzo e un giorno va a fare un giro in macchina con lui. Arrivati in campagna, scopre che ad aspettarli c’è un altro ragazzo. I due la stuprano e, da quel momento, la ragazza entra in una spirale di violenze tremende. I suoi aguzzini, che con il tempo aumentano, forti di un tessuto sociale favorevole più a loro che a lei e forti della loro vicinanza alla ‘ndrangheta, agiscono indisturbati per ben tre anni. Quando Anna Maria capisce che vogliono fare alla sorella piccola le cose che hanno fatto a lei, trova il coraggio di denunciare i suoi stupratori. Da allora lei e la sua famiglia subiscono minacce e violenze di ogni genere. I suoi aguzzini tentano, con minacce di morte alla sua famiglia, di costringerla a ritirare la denuncia. Non ci riescono: gli accusati vengono arrestati e rinviati a giudizio. Il paese si ribella, a partire dalle donne vicine agli imputati. Nessuna di loro accusa i propri uomini, ma tutte si scagliano contro Anna Maria. Per tutte è una “puttana”. I primi sei arrestati arrivano al processo con rito abbreviato: i giudici credono alla ragazza e gli aguzzini sono condannati in via definitiva il 6 dicembre 2007. Alla fine del processo, Anna Maria ha 21 anni. Le minacce e gli insulti diventano più forti. Vogliono che lasci il paese. Lei denuncia per stalking i vicini di casa, le donne che vogliono cacciarla. La situazione diventa ancora più pesante e viene messa sotto scorta insieme alla famiglia. Solo il 15 luglio 2010, lascia San Martino ed entra nel programma di protezione. Anna Maria – la prima persona a cui viene riconosciuto lo stalking – oggi vive in località protetta con la sorella.

Seconda storia. Quella di una ragazzina di 15 anni di Pimonte, un paesino dei Monti Lattari. Si innamora di un 16enne che viene da una famiglia di camorristi, quelli che comandano il paese. Lui convince la ragazza – che intanto crede di essere diventata la sua fidanzata – a fare sesso. Contemporaneamente dà appuntamento anche ai suoi amici che si nascondono e filmano tutto con gli smartphone. Poi arriva la minaccia: o lei va con tutti gli altri o i video cominceranno a girare sui social. Sono quattro o cinque, diventeranno 12. C’è un altro legato alla camorra – è parente di gente del clan – e c’è il quasi 14enne figlio del boss, padre in carcere e madre latitante. È il gruppo degli amici di Pimonte. Non sono i soli: ci sono gli amici di Gragnano e quelli di Vico Equense. Così la scena si ripete non si sa per quanto tempo.

La 15enne subisce, ha paura, ma alla fine trova il coraggio di denunciare. Cominciano le indagini, le informative alla Procura presso il Tribunale dei minorenni di Napoli. I ragazzini vengono interrogati. In paese si comincia a parlare di questa storia e anche dell’inchiesta che coinvolge i parenti dei camorristi. Un giornale on line riporta la notizia, ma viene costretto a rimuoverla dal web. L’autore dell’articolo viene affrontato e minacciato in strada dal sedicenne. Però l’inchiesta va avanti lo stesso. Finisce che vengono presi tutti, e tutti chiusi nel centro di prima accoglienza di Napoli.

E arriviamo a Melito Porto Salvo. Terza storia. Una bambina di 13 anni si innamora del figlio del boss Iamonte, la cosca di ‘ndrangheta più pericolosa di Melito e, per tre anni, viene violentata da lui e da altri otto amici suoi. Fortunatamente trova anche lei il coraggio di denunciare. Non conosciamo ancora i particolari della vicenda, ma per quel che ci è dato sapere la dinamica è pressoché identica agli altri due casi che ho raccontato e le reazioni al contesto simili.

Anna Maria Scarfò non ha dovuto combattere solo contro i suoi aguzzini, ma anche contro un paese che si è schierato a favore loro e contro di lei. Da Melito i racconti giornalistici annunciano un clima pesante nei confronti di questa ragazza a cui si attribuiscono comportamenti da puttana esattamente come era stato fatto con Anna Maria Scarfò. Considero parziali queste cronache sui giornali perché in realtà c’è una parte consistente di cittadini e di associazioni come Libera che sta sostenendo questa ragazza e la sua famiglia. Ma il punto è che non mi stupirebbe affatto se si andasse incontro allo stesso copione. Perché è vero che gli stupri di gruppo a danno di minorenni non sono una novità – e che altre volte ci siamo ritrovate ad affrontare situazioni come Montalto di Castro in cui la comunità del posto si è schierata contro la vittima – ma qui c’è qualcosa di più che pende sulla testa di chi ha denunciato e di chi proverà a sostenerla: è la ‘ndrangheta.

Non è irrilevante in questa vicenda, come nelle altre, che chi ha organizzato gli stupri di gruppo facesse parte di una cosca. C’è ignoranza, sessismo (come d’altronde registriamo ovunque) ma c’è anche tanta paura perché anche solo andare alla manifestazione o esprimere una parola di condanna può voler dire essere minacciati da queste bestie. E queste bestie ammazzano, ti fanno saltare in aria la macchina, picchiano, ti bruciano il negozio, perseguitano te e i tuoi figli. Non sto chiaramente giustificando l’omertà, sto dicendo che a volte si è troppo superficiali nel giudicare condizioni sociali che sono realmente molto complesse. C’è chi è connivente a quel sistema, ma c’è chi quel sistema lo subisce e non lo si può giudicare perché non agisce da eroe. La Calabria non ha bisogno del sacrificio di altri uomini e di altre donne che in questi anni in pochi hanno avuto il tempo e la voglia di raccontare.

Ormai tutti conoscono la storia di Peppino Impastato in pochissimi conoscono la storia di Giuseppe Valarioti, a testimonianza che di anti-‘ndrangheta in questo paese non si sa nulla. Ma, ripeto, non è con il sacrificio di alcuni cittadini di Melito che si aiuterà questa ragazza o tutti quelli che vivono una condizione di sopraffazione. Questa realtà si aiuta se questa consapevolezza entra in un ordine di problema nazionale che investe la politica, le istituzioni, la scuola, la chiesa, i servizi sociali, le forze dell’ordine, la società civile… se insomma ognuno prova a fare la sua parte.

La mia parte – da donna delle istituzioni – è quella di denunciare quello che sta succedendo, continuare l’attività, ultra-decennale, a contatto delle vittime di violenza di genere e poi, attraverso la commissione parlamentare Antimafia, chiedere di intervenire in questa vicenda e vigilare perché si faccia tutto il possibile. Da donna calabrese – il caso ha voluto che nascessi, ma senza mai viverci, a Melito Porto Salvo – posso solo dire che questi sono i momenti in cui mi sento più vicina alla mia terra. Perché la vergogna non è di chi vive su quei territori, ma di chi si è sempre voltato dall’altra parte. Fanno comodo i voti della Calabria, conviene che sia terra di passaggio per tutte le forze politiche. Prendi i voti e scappa, tanto al resto ci pensa la ‘ndrangheta.

Fonte Huffington Post

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