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Giovedì, 18 dicembre 2014

Per non dimenticare la strage di Peshawar

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L’eccidio avvenuto nella scuola militare di Peshawar non ha nulla di casuale: è stato un atto di rappresaglia e vendetta dei talebani pakistani contro i militari pakistani, per le continue operazioni di contrasto che il governo di Islamabad conduce da tempo, su impulso di Washington, nel Waziristan del nord e che fino ad oggi hanno portato all’evacuazione di 800mila persone dalla regione. il governo pakistano si muove insomma con l’idea di fare terra bruciata intorno all’azione dei talebani, che in quella zona, decisiva e strategica da molti punti di vista, nuotano come pesci nel mare – sia quelli di nascita afgana sia quelli pakistani – e continuamente riproducono le condizioni del proprio rilancio e della propria espansione.

Ma la terribile strage di innocenti ragazzini, ammazzati sui libri di studio, non ha nulla di casuale anche e soprattutto da un punto di vista più generale. Ha infatti alle spalle gli effetti devastanti della lunga guerra che gli Stati Uniti di George W. Bush scatenarono nell’autunno del 2001 contro il regime di Kabul, per mettere fine al terrorismo internazionale –così il presidente Bush e i suoi sostenitori neocon proclamarono a destra e manca – e che invece si è trasformata nella fonte primaria dell’infinita propagazione a raggio globale del veleno terrorista.

Una guerra che dura da tredici anni, la più lunga che gli Stati Uniti abbiano mai intrapreso fuori dal loro territorio, costata l’astronomica cifra di 1000 miliardi di dollari, e che ancora oggi appare ben lontana dal potersi dire conclusa. Infatti il presidente Barak Obama, che aveva dichiarato fin dall’inizio del suo primo mandato che le truppe americane non sarebbero rimaste in Afganistan oltre il 2014, è costretto a cedere alle pressioni del Pentagono. E i militari statunitensi – sia pure con prevalenti funzioni di addestramento e sicurezza, ma in numero congruo – resteranno fino al 2016, secondo gli accordi firmati di recente con il nuovo governo di Kabul . Il parlamento afgano ha approvato per questo, alla fine di novembre, l’accordo che autorizza circa 12.500 soldati stranieri a restare nel Paese dopo il ritiro a fine dicembre della gran maggioranza delle truppe Nato. L’accordo bilaterale di sicurezza con gli Usa (Bsa) e un accordo analogo con la Nato sono stati approvati dal senato afgano dopo essere passati all’Assemblea Nazionale.

Afpak è la sigla geostrategica con cui gli analisti indicano la zona che racchiude l’Afganistan e il Pakistan. I due Paesi hanno la loro linea di confine lungo la cosiddetta Area tribale che è di pertinenza pakistana ma in mano a tribù in prevalenza pashtu, piutosto riottose e spesso ostili nei confronti del governo centrale. La zona tribale non è una frontiera tra i due Paesi ma una permeabile e porosa zona di contiguità, dove in una direzione e nell’altra i gruppi talebani si muovono liberamente, protetti, da sempre, da parti rilevanti della forze armate pakistane, dai servizi segreti e altro del potere centrale. Il doppio gioco di Islamabad, una storia densa di tutte le contraddizione, i doppi fondi, gli inganni e i tradimenti del potere, di cui gli Usa si sono serviti quando necessario: questo, ancora, c’è dietro la strage di Peshawar, la città pakistana che, oltre che essere la capitale della provincia di Khyber Palhtunkhwa, è il capoluogo di fatto della zona tribale, denominata anche Fata, in base all’acronimo in lingua inglese Federally Administered Tribal Areas.

E’ dentro il vasto perimetro dell’Afpak che gli Usa e l’Occidente al seguito giocano oggi la partita, in qualche misura decisiva, visto il moltiplicarsi dei frutti velenosi della guerra al terrorismo, del contrasto alla minaccia di una riscossa dei talebani e di una loro più pervasiva espansione in ogni direzione. L’eccidio dei bambini pakistani parla di questo, così come di questo parlano i continui sanguinosi attentati che avvengono da una parte e dall’altra del poroso confine tra Afganistan e Pakistan. E ancora di questo parla la galassia in espansione sui due lati delle montagne di confine delle sigle qaediste, a cominciare da quella responsabile della strage alla scuola, il Tehreek e Taleban Pakistan o Ttp, talebani pakistani pronti alla Jihad contro Islamabad. La quale capitale pakistana ha convissuto da sempre con i suoi talebani dell’Area tribale, con le diffuse complicità degli apparati centrali nei loro confronti, con l’andirivieni della frantumaglia qaedista lungo la zona di confine, alla ricerca di riparo quella afgana, sottoposta alla stretta militare dei marines e della Nato. Bin Laden trovò rifugio e poi fu ucciso dal commando statunitense proprio in Pakistan, a pochi metri di distanza da una caserma dell’esercito locale.

Oggi Islamabad è sottoposta a una stretta crescente da parte di Washington, perché i legami occulti tra le forze armate di Islamabad e i Talebani sono stati e continuano a essere al centro di continue crisi tra il Pakistan e l’amministrazione americana; perché le minacce di Washington di sospendere gli aiuti economici al Pakistan sono rimaste fino ad oggi soltanto minacce – gli Usa non possono mollare infatti neanche di un millimetro la presa su Islamabad, al di là di qualsiasi doppio o triplo gioco si consumi nei meandri dei poteri interni a quel Paese per l’importanza di quell’alleanza – ma Washington sa che una parte dei suoi aiuti vanno a finire in un modo o nell’altro ad alimentare la galassia del fondamentalismo e, volendo porre fine alla guerra in Afganistan, cerca di stringere il più possibile il freno sul Pakistan. La campagna militare di Islamabad nella zona tribale, con ampio dispiegamento di forze e obiettivi, ne è il frutto. E la strage di Peshawar è la reazione a tutto questo, la conferma che la lunga scia di sangue, compreso l’emblematico attentato del 2012 contro l’eroica ragazza afgana Malala Yousafzai, e compresi i numerosi attentati condotti fin nel cuore pulsante di Kabul, non è soltanto, quella scia, uno strascico della guerra avviata tredici anni fa ma l’evidenziarsi forse di una fase nuova, più complessa e rischiosa, che ci riguarda tutti da vicino. Perché la strage degli innocenti non rimanga solo un doloroso fatto di cronaca, che si dimentica il giorno dopo, bisognerebbe che la politica si occupasse anche di ciò che sta dietro quella strage, e ne facesse materia per capire come, per esempio, immaginare e costruire la politica dell’Europa nel mondo. A partire da proposte italiane, se il semestre di Presidenza italiana non fosse già concluso come si è concluso.

 

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