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Sabato, 4 aprile 2015

Yemen al centro del risiko, ma il problema è altrove

Shi'ite Muslim rebels hold up their weapons during a rally against air strikes in Sanaa

Gli Houthi sono la minoranza sciita dello Yemen. Vivono concentrati soprattutto nella parte settentrionale del Paese (denominato Repubblica Unita dello Yemen) e rappresentano il settore della popolazione più deprivato sul piano sociale, particolarmente oppresso e duramente represso quando la gente di quella regione ha tentato di alzare la testa. Tutto questo in un Paese che è già tra i più poveri del mondo e dipende in larghissima misura dagli aiuti esterni.

Negli ultimi mesi gli Houthi si sono di nuovo fatti sentire e hanno messo politicamente sotto sopra il Paese, cacciando il presidente Abdo Rabo Mansour Hadi, fuggito prima ad Aden e poi in Arabia Saudita dopo aver sostenuto la parte di strenuo e legittimo difensore degli interessi nazionali contro la minaccia del “terrorismo”.

La minaccia del terrorismo, è diventato ormai il mantra che giustifica molte scelte contro fatti, persone, proteste che col terrorismo non hanno niente a che fare o che con esso non hanno diretta attinenza.

E infatti come fatti di terrorismo sono stati stigmatizzati dal potente vicino saudita i disordini sociali e politici provocati in Yemen dagli Houti. La rappresentazione mediatica del conflitto, da parte dei potentati arabi, è di fatto impostata sull’idea di un ben orchestrato ruolo ostile dell’Iran, di cui gli Houthi sarebbero la longa manus, con il sostegno indiretto delle Nazioni Unite.

La collocazione geografica dello Yemen, nodo strategico tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, l’attrazione che l’Iran sciita, almeno potenzialmente, potrebbe esercita sugli Houti, e soprattutto l’ostilità che l’Arabia saudita nutre verso l’ipotesi di un rafforzamento dell’Iran, come potenza regionale, in grado – così presentano la questione a Riyadh – di impossessarsi dello Yemen: è questo l’insieme degli elementi che spiegano le drastiche decisioni, in termine di aggressiva prevenzione militare e preventiva alleanza a tutto campo, di cui l’Arabia saudita si è resa protagonista per contrastare la rivolta degli Houthi.

I sauditi hanno infatti promosso una cordata sunnita senza precedenti, con Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Turchia, Kuwait, Bahrain, Marocco, Sudan, arrivando fino al Pakistan e mettendo d’accordo anche la Lega araba. Di questa alleanza militare si sono offerti come capifila e hanno messo a disposizione un significativo dispositivo militare di uomini e mezzi, arrivando a ipotizzare anche un intervento via terra per riportare l’ordine sunnita in Yemen. E si sono guadagnati l’appoggio Usa, con il presidente Barack Obama dimentico degli accordi che negli stessi giorni lo impegnavano a Losanna sul nucleare iraniano ma pur sempre nell’orbita, essendo presidente del suo Paese, degli alleati di sempre degli Stati Uniti. I sauditi, appunto.

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Anche quello che sta avvenendo nello Yemen si inserisce nel burrascoso quadro geopolitico andato in tilt, a partire dalla scia dei disastri e delle implosioni dell’area medio orientale che il mondo ha ereditato come lascito delle guerre imperiali di George W. Bush. E si inserisce nei potenti processi in atto di ridefinizione degli assetti geopolitici che toccano tutto il Medio Oriente, investono gran parte dei Paesi africani e hanno nella penisola arabica il loro fulcro. Il centro della questione è là.

Le élites arabe, che non si sono mai peritate di oliare la macchina del fondamentalismo sunnita in funzione di controllo e deterrenza anti-iraniana del territorio, ora si trovano tra l’incudine dello Stato islamico, che allunga i suoi tentacoli ovunque, e il martello dell’Iran, che si accorda con l’Occidente sulla decisiva questione del nucleare e per questo acquisterà nuova forza e credibilità come potenza regionale. Quello appunto che le petromonarchie del Golfo temono come il peggiore dei mali possibili.

L’accordo di principio sottoscritto a Losanna sul nucleare con l’Iran, aprendo, per la sua portata storica, una nuova pagina delle relazioni internazionali, è la vera ragione delle prove muscolari saudite contro i disordini nello Yemen. L’accordo non farà che alimentare le tensioni nell’intera area e moltiplicherà le contraddizioni dell’Occidente, in particolare tra gli Usa e lo storico alleato israeliano. Basti pensare alla sorda e conclamata ostilità di Netanyahu contro l’accordo e l’ostentata manifestazione dello stesso Netanyahu a sostegno all’iniziativa di Riyadh contro gli Houthi.

La delimitazione di nuove aree di controllo, la ricerca dell’equilibrio tra i Paesi più potenti dell’area, l’esercizio di nuovi ruoli sui vari scacchieri. Questa la partita, in cui rientra anche quella del presidente egiziano al-Sisi, che punta a radicare di nuovo l’influenza egiziana sulla regione attraverso la lotta al terrorismo dei gruppi islamisti, ma anche ponendosi alla guida della crociata anti-sciita dei Saud

Un aspetto che gioca un ruolo decisivo nelle vicende yemenite – ma non solo in quelle – e che invece viene per lo più ignorato a livello mediatico, è il crescente peso degli squilibri economico-sociali che colpiscono larghe parti della popolazione, il combinato disposto tra il disagio sociale e gli scombussolamenti politici che le lotte di potere provocano nella vita delle persone.

Nella vicenda yemenita, l’evidenza di un meccanismo di crisi sociale e politica e dell’intreccio tra le tante cause che alimentano la crisi, è, a ben guardare, ben più importante e impattante della mera portata degli interessi della minoranza sciita dello Yemen o della stessa possibilità dell’Iran di estendere la sua influenza in quel Paese. Semplificare ideologicamente le dinamiche in atto o inforcare solo gli occhiali dello scontro etnico-religioso per spiegare quello che sta avvenendo, aiuta solo chi guida le danze.

L’oltranzismo religioso è là, come è stato a lungo altrove, un’arma potente per sostenere politiche di potenza, di resistenza a altre potenze emergenti, di concorso a nuovi riassetti del potere. E’ l’alimento della narrazione pubblica per smuovere i cuori, arruolare le forze, giustificare gli eccidi e gli orrori. Ma per capire come vadano le cose, bisogna guardare anche oltre.

Le petromonarchie della Penisola Araba, a cominciare da quella di Riyadh, non sono disposte ad accettare nessun cambiamento di regime e puntano a salvaguardare sopratutto la continuità dei propri sistemi di potere, con azioni e soluzioni che spesso hanno il solo effetto di amplificare la gravità dei problemi. I pozzi avvelenati del terrorismo ne sono la prova più lampante, lo Stato islamico in costruzione, che predica lo sterminio di tutti gli apostati, a cominciare dai musulmani di fede sciita, idem. Sono sì un problema, filiere terroriste e Is, perché il loro ruolo è sempre più destabilizzante per l’intera zona. Ma per Riyadh quel ruolo è con tutta evidenza meno pericoloso di Teheran.

Nella crisi yemenita, l’Iran d’altra parte, se non è in grado di intervenire direttamente nel Paese né oggi né nel medio e lungo periodo, non esita tuttavia a sfruttare l’occasione di essere percepita come un focus attrattivo per gli sciiti yemeniti e non solo. Così Teheran alimenta sapientemente sul piano propagandistico questa percezione, sapendo che l’interventismo delle controparti arabe nello Yemen non potrebbe che avere esiti devastanti e destabilizzanti nell’intera penisola, con vantaggi per lo stesso Iran.

E’ il micidiale gioco del risiko senza regole che ormai domina il mondo globalizzato. E la domanda torna a ruotare sul che fare perché l’Onu riacquisti ruolo, autorevolezza e forza, nonché efficace capacità di usare una rinnovata funzione di terzietà.

 

 

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