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Reddito, lavoro, esistenza. Il quid della cittadinanza

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Sono, non da oggi, sostenitrice del reddito di cittadinanza e di ogni proposta che ne contenga il senso e ne incrementi via via le potenzialità di coinvolgimento politico, intorno a una nuova idea di cittadinanza, solidale, includente, globale. Europea ma radicata intanto, per quel che ci riguarda, in Italia. Servono risorse? Ovviamente sì, come è per tutte le scelte politiche che si fanno. Si tratta di scegliere, trovare i modi, decidere questo sì e questo no. E non tanto o non soltanto in stretti termini di bilancio – i famosi “compiti a casa”, ridottisi come sappiamo bene allo stringere la cinghia – ma di orientamenti strategici per affrontare la crisi, che sarà lunga e perigliosa, come il dibattito sulla materia rende ogni giorno più evidente. E perché, come viene ripetuto da un numero crescente di economisti e come i fatti ci squadernano di fronte, l’austerità – stringere appunto la cinghia – non può essere la risposta alla crisi, anzi quella crisi ne viene solo alimentata. Sappiamo che le scelte non sono mai neutre o tecniche. Ma non dobbiamo solo saperlo, dobbiamo farne uno strumento di battaglia politica. Oggi, sul piano sociale e su quello economico, servono scelte atte a spezzare la tendenza alla divaricazione tra chi paga i prezzi durissimi delle dominanti politiche neoliberiste e chi ne trae solo vantaggio, tra chi gode del privilegio dell’essere membro di diritto del club dei privilegiati e chi non sa più che cosa significhi essere cittadino di uno Stato di diritto. La crisi della rappresentanza democratica e della politica sta soprattutto qui, qui si alimenta giorno dopo giorno, col rischio di diventare irreversibile.

Perché, dobbiamo domandarci di fronte alla fuga dal voto, le nuove generazioni dovrebbero pensare che da quella parte – dalla politica, dalle istituzioni democratiche, dalle rappresentanze – possa venire una risposta ai loro problemi, alle loro aspettative, alla loro ricerca di mondo? La questione della decadenza anche morale della politica nasce soprattutto dalla rottura con la società, dalla sordità ottusa e dalla cecità perenne di fronte ai suoi giganteschi problemi. Il no future delle giovani donne e dei giovani uomini, per esempio. Ragazze interrotte oggi siamo tutte, abbiamo detto e anche Ragazzi interrotti, come quegli straordinari operai dell’Alcoa. Ma sei hai vent’anni e se abiti in quell’estraniante dimensione del non lavoro e dell’assenza di diritti, il problema assume il carattere di un’intera epoca storica alla deriva.

Come dice Etienne Balibar, “ci troviamo in un momento in cui diventa (di nuovo) visibile che l’interesse o l’identità nazionale non sono in quanto tali o in assoluto fattori di unità della comunità dei cittadini e l’equazione tra cittadinanza e nazionalità è del tutto precaria.” Questo vale da noi come un macigno, e vale oggi in modo drammatico per l’Europa, che non potrà uscire dalla crisi economico-finanziaria che l’attanaglia se non sceglierà la via della costruzione politica di se stessa e dunque non costruirà lo spazio pubblico civile, sociale simbolico di una nuova cittadinanza. E se non coinvolgerà, come protagonisti del cambiamento di se stessa, i giovani.

Dunque reddito di cittadinanza come passo in questa prospettiva dall’Italia all’Europa e come modo per riaprire anche in Europa il dibattito su uno strumento che va costruito in tutta la sua portata, non riducibile a mero sussidio di assistenza sociale. Il reddito minimo garantito, al centro della campagna per una legge di iniziativa popolare di cui Tilt è protagonista con altre associazioni e che Sel sostiene, per come è formulato è un passo importante proprio nella direzione che conta: ridisegnare la mappa della cittadinanza sociale, costruita ieri intorno alla figura del lavoratore maschio adulto, procacciatore di salario e perno dello spazio pubblico e già ieri fortemente messa in discussione dal femminismo.

In seguito messa definitivamente sotto scacco dai processi di globalizzazione, dall’indebolimento degli Stati nazionali, dal crescente predominio dei mercati e delle istituzioni internazionale di interesse finanziario. E anche, vale la pena di ricordarlo, dal conseguente indebolimento del movimento dei lavoratori e dal venir meno di alternative credibili per la crisi della sinistra.

Ma le motivazioni a favore del reddito minimo garantito, oltre che nella necessità di ripristinare strumenti di certezza della cittadinanza, stanno anche, a mio giudizio, proprio nei percorsi di accesso alla cittadinanza dei soggetti che hanno animato le grandi lotte di liberazione umana della modernità, soprattutto le donne e ovviamente gli operai. Certamente ci sono oggi in ballo altri dirimenti diritti di cittadinanza con cui ancora fare i conti, ci sono questioni epocali alle quali solo una coerente e coraggiosa cultura ambientalista può dare risposta, anche in termini di accesso e diritto alla cittadinanza. Ma percorsi politici come quelli del movimento operaio e del femminismo, dotati di una forza materiale e simbolica straordinaria, hanno sfondato muri corazzati, aperto strade, messo in scena una straordinaria capacità di trasformazione.

Nel femminismo le donne hanno posta con forza la volontà di essere soggetti di prospettiva sul mondo e sulla riflessione teorica, a partire dal nesso produrre/riprodurre, dal valore della cura come misura non solo dei rapporti in ambito famigliare ma della responsabilità pubblica; e dall’idea di una cittadinanza fondata sul riconoscimento del valore economico-sociale del lavoro domestico come fonte di ricchezza e di benessere. Non cittadinanza di secondo rango ma pienezza della cittadinanza anche su piano del contributo che dai alla ricchezza sociale. Punto dirimente. Il reddito di cittadinanza anche da là trae la sua ragion d’essere: dalla necessità di riconoscere alla persona, per quello che è, il diritto ai diritti della cittadinanza e da quello che fa per il benessere di tutti la fonte della ricchezza sociale. Storie e vicende che hanno avuto la forza di ridisegnare in radice la mappa delle relazioni di civiltà tra gli umani. Che in termini politici significa democrazia, diritti, istituzioni. Più in specifico, senso e significato della cittadinanza.

Le Costituzioni novecentesche – accogliendo quelle spinte – hanno disegnato una cittadinanza fondata su un intreccio insopprimibile tra democrazia: democrazia dei diritti politici e democrazia dei diritti sociali. In Italia lo Statuto dei lavoratori che cosa fu se non l’espressione di questo percorso, pietra miliare di un passaggio storico per la cittadinanza messo in atto da una precisa parte sociale? Il diritto a una piena cittadinanza degli operai di fabbrica, che la Costituzione garantiva e che il Capitale teneva fuori dai cancelli. Monti, che viene da una storia ostile a tutto questo, più che sbagliarsi sulle cause reali della disoccupazione – come qualcuno si sforza chissà perché di fargli capire – semplicemente mette in chiaro l’aspirazione neoliberista a sbarazzare il mercato dai “lacci e lacciuoli” che la democrazia delle regole sociali costruì a tutela del mondo del lavoro. Monti fin troppo chiaramente lancia il suo messaggio: che in Italia l’ora sia quella giusta per colpevolizzare il passato e menare colpi sul presente.

Ma non possiamo guardare all’indietro con la vana idea di riacchiappare tutto o di lamentarci per ciò che è stato e non c’è più, in un mondo dove tutto è cambiato a cominciare dal rapporto con i problemi della vita e dell’esistenza delle nuove generazioni. Di ciò che sono state le grandi conquiste del passato occorre secernere soprattutto l’elemento che le fonda, rendendole emblematiche. E dunque tale da ridiventare – quell’elemento – volano di nuovi processi. Ieri la spinta a poter godere a tutti gli effetti di diritti come gli altri, in fabbrica, fuori, nelle relazioni sociali, nella vita e di venir riconosciuto per questo status – nello spazio pubblico, o nella comunità di appartenenza o in quello che ognuno voleva. E oggi soprattutto l’aspirazione a godere di uno spazio di indipendenza che renda intanto possibile pensare il futuro e non dover subire il ricatto del servilismo.

Si tratta soprattutto, per dirla con chi è esperto di Basic income, di approfondire il significato di processi di maturazione del concetto di cittadinanza legati anche alla riflessione presente in importanti documenti internazionali come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che menziona la dignità umana sia nel preambolo “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo” sia nell’art. 1. E per quanto riguarda il piano sociale va ricordato gli artt. 22 e 25 della Dichiarazione richiamano la necessità della garanzia di risorse sufficienti per condurre una vita decorosa.

Non arrendersi insomma ai memorandum senza via di scampo che ci somministra di continuo la Troika, ai rischi di un’Unione “made i Germany”, come si ostina a segnalare Guido Rossi, al mantra ideologico dell’austerità prima e poi la luce alla fine del tunnel. Quei processi si maturazione dell’idea di cittadinanza disegnano la geografia di una “svolta” che possiamo definire come un processo di “costituzionalizzazione della persona”, cioè di progressiva strutturazione del reticolo dei diritti fondamentali attorno alla dimensione personale nelle sue diverse connotazioni concrete ed individualizzanti, “nel superamento della soggettività astratta di diritto cara al giuspositivismo, ma al tempo stesso anche di una nozione astorica e troppo distante dalle contraddizioni sociali di eguaglianza tipica del giusnaturalismo tradizionale” (Rodotà 2007).

Il reddito di cittadinanza sta dentro questi processi ed è per questo uno dei grandi temi dell’oggi intorno a cui riorganizzare la sinistra. A partire dal “fare” ma soprattutto dal pensare. Perché è qui che continua a cascare l’asino.

Elettra Deiana

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