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Molte domande e poche risposte

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Fusione Hera-Acegas. Ecco le ragioni della mia contrarietà 

E’ ormai nota la vicenda che riguarda la fusione tra Hera, holding per la gestione di rifiuti, acqua e gas in gran parte dell’Emilia Romagna, e Acegas – Aps, gestore dei medesimi servizi nei territori di Trieste e Padova. Questa gigantesca operazione, ci dicono, è giustificata da politiche industriali tendenti a rafforzare le così dette multiutilities in vista delle “famigerate” gare europee per la gestione dei servizi pubblici. Ma, guardando alla legislazione nazionale nel contesto mutato dalla sentenza della Corte Costituzionale (Sentenza 199/2012) ora i Comuni sono di nuovo liberi di scegliere la formula organizzativa che più ritengono opportuna, ivi compresa la gara, sempre in ossequio ai principi europei in materia di tutela della concorrenza.

La volontà sottostante a queste fusioni dunque, più che quella di “difendere” la gestione dei servizi nei nostri territori dall’invasione straniera, ci sembra chiaramente quella di espandersi verso altri mercati in cerca di profitti dalla gestione dei servizi.  Né è un esempio la stessa Acegas – Aps che, negli anni scorsi ha iniziato un lavoro di metanizzazione della regione al confine fra la Serbia e la Bulgaria. Risultato attuale ottenuto attraverso la gestione bipartisan: 470 milioni di debito, di cui più della metà immediatamente esigibile; e la possibile diluizione dello stesso in una più grande Hera come motivazione presentata all’opinione pubblica a sostegno della fusione: riduzione del danno, si dice.

Ma è evidente che anche in presenza di consistenti pacchetti di azionariato pubblico, come nel caso di Hera e Acegas, l’ingrandirsi a dismisura dell’azienda allontana la gestione del servizio dai suoi diretti fruitori e affievolisce sempre di più il controllo della proprietà sul management. Con la possibilità concreta che nel tempo beni comuni e servizi ai cittadini costino di più, che nella scelta fra un inceneritore che inquina e la raccolta differenziata si privilegi il primo per fare cassa, e che si perda progressivamente di vista la finalità di fornire ai cittadini il servizio migliore al suo costo minore.

Dunque ritorna più che mai urgente e al centro il tema posto dai referendum del giugno 2013 e da tante battaglie condotte anche in questo ultimo anno: tornare a ragionare sulla gestione dei servizi pubblici in termini di responsabilità e buon governo, piuttosto che in termini di profitto e dividendi, in termini di vicinanza ai cittadini e capillarità territoriale, piuttosto che in termini di indefinita espansione economica e territoriale;  in termini di controllo pubblico sulla gestione, piuttosto che in termini di quotazioni di borsa.

Ripartiamo dunque da una convinzione, piuttosto ovvia, ma che oggi, all’ombra del “pensiero unico dello spread”, è utile ripetere: le scelte economico-politiche che spingono verso la privatizzazione dei servizi si inquadrano in un orizzonte ben preciso: quello neoliberista. Che tali scelte siano presentate come inappellabilmente inevitabili e necessarie presuppone che tale orizzonte, tale paradigma, sia assunto come l’unico possibile e praticabile.

Quello su cui ci muoviamo è il terreno di quella che io considero un’insanabile contraddizione creatasi almeno 10 anni fa con la nascita di Hera e con la sua quotazione in borsa e continuata con la spinta alla liberalizzazione nella gestione dei servizi fondamentali.

I due soggetti – Hera e Acegas – sono società quotate in borsa, nei fatti dunque vincolate ad obiettivi di natura privatistica, ma allo stesso tempo a prevalente capitale pubblico e gestori di servizi pubblici essenziali (acqua, energia e ciclo dei rifiuti).

E’ chiaro quale sia la mia e la nostra preoccupazione: il preponderare delle logiche privatistiche sull’interesse pubblico.

E già le prime tappe di questa operazione di fusione confermano questa preoccupazione:  non è stato possibile coinvolgere prima i Consigli Comunali interessati nella discussione perché l’operazione andava tenuta riservata per non falsare il mercato azionario.

I tempi e le modalità di esercizio della democrazia confliggono dunque con le logiche di mercato.

Così se è vero che tutto è ancora aperto poiché la decisione finale spetta al voto dei Consigli Comunali, per decidere c’è però tempo solo ed improrogabilmente, pena il fallimento dell’intera operazione, fino al 15 ottobre.

Dunque i Comuni dovranno deliberare incalzati dalle logiche di mercato senza aver potuto approfondire un tema così delicato e complicato.

In questo poco tempo che ci è stato concesso per analizzare un’operazione industriale di tale portata le domande che sento il dovere di porre sono molte e di vario genere.

In primo luogo qual’è la ragione motore di questa operazione di crescita?

Mi chiedo infatti, nel computo dei costi e benefici della fusione che parte ha l’erogazione di un servizio sempre più efficiente e sempre meno costoso per i cittadini? Non sarebbe accettabile per noi che questa operazione fosse guidata dalla sola logica della politica industriale più vantaggiosa per gli azionisti. Ancorché gli azionisti siano pubblici ritengo che al primo posto debba figurare l’ottimale erogazione del servizio e solo dopo si possano considerare dividendi e profitti.

Dunque in che modo e in che misura questa operazione potrà migliorare la qualità dei servizi erogati, abbassare la pressione tariffaria (anche in ossequio al risultato referendario) e in generale essere vantaggiosa per le nostre comunità e per i nostri territori?

E a seguire: crescere per conquistare nuove fette di mercato è necessario per sopravvivere o per fornire, appunto, migliori servizi?

E non da ultimo, in che modo si intende coniugare il radicamento territoriale dei servizi con l’espansione della società oltre l’ambito regionale?

Nonostante le molte risposte ottenute queste domande rimangono nei fatti ancora inevase, ecco quindi perché mi dico fermamente contraria a questa operazione.

Cathy La Torre

1 di 10 Comunicati stampa

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