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Giovedì, 22 ottobre 2015

Caos libico

Mideast Libya

Al diplomatico spagnolo Bernardino Leon, le Nazioni Unite avevano affidato nei mesi scorsi la quasi impossibile missione di mediare in Libia tra le opposte fazioni politiche al potere e le numerose tribù in conflitto tra loro, senza contare il peso inibente delle diffuse formazioni filo Isis, che controllano porzioni importanti del territorio. Nei giorni scorsi Leon sembrava essere arrivato a un punto fermo. Le delegazioni dei due governi, formatisi sull’onda delle conflittuali elezioni della primavera scorsa, l’uno con capitale a Tobruk e riconosciuto a livello internazionale, l’altro insediato a Tripoli, sembravano infatti orientate ad accettare un nuovo esecutivo unitario, guidato da Fayez Serray, esponente di rilievo di Tobruk, proposto dalle Nazioni Unite e con storia in uno dei governi del periodo post Gheddafi. Ma nulla va come dovrebbe andare in un Paese dove è saltato tutto e dove l’estrema frammentazione della realtà sociale, degli interessi, delle storie è tornata a essere l’elemento centrale.

L’Islam, va sottolineato, non è allo stato attuale l’elemento di maggiore attrito nella dominante anarchia politica. Il conflitto è imperniato soprattutto sulla contrapposizione tra gli ex appartenenti al deposto regime e le nuove élites di ispirazione più o meno laica da una parte, e, dall’altra, le élites nate con la rivoluzione anti Gheddafi, che oggi occupano Tripoli. E’ in questa contrapposizione di potere politico che si possono leggere anche le dinamiche tra i difensori di un Islam moderato e i sostenitori di un una più stretta connessione tra la religione e tutto il resto della vita, dimensione politica compresa. Che comunque è cosa assai diversa dal fondamentalismo estremistico dei seguaci del Califfo. Tobruk e Tripoli, insomma. Senza dimenticare però che tra le nuove generazioni ha presa il jihadismo, come molti episodi legati alla presenza dell’Isis sul territorio libico dimostrano.

Subito dopo l’annuncio dell’accordo e sebbene la maggioranza del governo di Tripoli fosse apparsa disponibile a sostenerlo presso la sua parte e il suo parlamento (secondo l’accordo i due parlamenti si sarebbero dovuti unificare), alcune fazioni oltranziste di Tripoli hanno dichiarato di non riconoscere l’intesa, con la conseguenza che una serie di scontri si sono subito registrati nelle strade e il General National Congress di Tripoli, attraverso il generale Abdulsalam Bilashair ha fatto sapere di non essere parte del processo, non essendo stato consultato. Caos nel caos, insomma, come è inevitabile che sia. Soprattutto perché un altro potente centro di potere è rappresentato in Libia dalle tribù. Il Consiglio dei capi delle tribù e dei saggi della regione ovest ha infatti criticato Tripoli e Tobruk esprimendo un giudizio negativo sul loro ruolo e chiedendo che si tenga un referendum per decidere se mantenere i governi delle due città rivali o sostituirli con un nuovo regime politico.

Come le cronache delle ultime ore riferiscono, le tribù hanno comunque chiesto di superare le divergenze e di riprendere i negoziati, organizzando un dialogo nazionale interlibico. Hanno inoltre fatto appello all’Onu affinché sostenga questa opzione nel rispetto del popolo libico.

La Libia è uno dei frutti avvelenati che la lunga sequela di avventure militari dell’Occidente ha direttamente prodotto o alimentato negli ultimi vent’anni. Un caos, quello libico, che si alimenta del caos geopolitico più generale, quello che corre lungo ramificati tracciati asiatici, inghiotte gran parte dell’Africa, fino all’incrocio tra Oceano Indiano e Oceano Pacifico, fa esplodere conflitti di ogni genere e chiude in una morsa le sponde del Mediterraneo. E in Libia le cause si intrecciano e si alimentano reciprocamente, mettendo a rischio molteplici interessi occidentali.

La ricchezza della Libia, in termini di risorse petrolifere, è nota e spiega non poco dell’attuale situazione e delle difficoltà che rendono quanto mai difficile trovare una via d’uscita, a dispetto dei tentativi delle Nazioni Unite, le uniche d’altra parte, nonostante la loro debolezza, in grado di fare qualcosa per evitare che tutto precipiti in altre dichiarate avventure militari da parte di potenze occidentali. Che sono tutt’altro che scongiurate. Per restare alla partita petrolio, secondo il presidente della compagnia petrolifera libica, che il governo di Tobruk ha rimesso in piedi nell’aprile di quest’anno, l’attuale produzione di greggio della Libia arriva a 440.000 barili al giorno. Al tempo di Gheddafi se ne estraevano più un milione e mezzo al giorno. Il governo di Tobruk ha autorizzato la sua compagnia petrolifera a riavviare l’esportazione del petrolio, a aprire un nuovo conto bancario negli Emirati Arabi e a aprire degli uffici in Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti.

In questo quadro così complesso e diversificato, certamente non per un caso fortuito, va in scena in questi giorni, nel cuore del Mediterraneo, una mastodontica esercitazione militare della Nato: la più imponente e partecipata dalla Guerra Fredda, con aerei, navi, truppe di terra, tecnologie di ultima generazione. C’è da sottolineare che la Nato ha ormai acquisito il ruolo di attore internazionale, colonna portante della geopolitica occidentale pronta a ogni uso. Che l’Europa non abbia una sua politica estera e di difesa dipende anche da questo e dalla continua espansione verso est della Nato, che storicamente ha costituito uno dei principali motivi di attrito con la Russia.

Il vicesegretario generale della Nato, l’ambasciatore statunitense Alexander Vershbow, parla di nuove sfide e di fronte a esse, aggiunge, gli alleati e i loro partner devono essere in grado di muoversi rapidamente e a largo raggio. Vershbow non nasconde che una delle sfide è rappresentata dalla politica della Russia in Ucraina e Crimea, ma sottolinea anche l’esistenza di un Fronte Sud, dalla Siria alla Libia. E dove si crea un vuoto per il fallimento dello Stato, spiega il vicesegretario della Nato, l’Isis è pronto a occupare lo spazio lasciato indifeso. Le grandi manovre nel Mediterraneo hanno anche questo scopo, costituiscono in sé un deterrente. Così la spiega il generale italiano Claudio Graziano, capo di Stato maggiore della Difesa, alludendo con tutta evidenza alla Libia e spiegando che in quel Paese non è stato assolto il compito di ricostruire le forze di sicurezza, come invece si sarebbe dovuto fare dopo l’abbattimento del regime di Gheddafi. Insomma, una drammatica sceneggiata che si ripete in tutti i Paesi dove, per ragioni che mai hanno alcunché a che vedere con quelle addotte ufficialmente, si è voluta esportare la democrazia con le armi e si è lasciato che le cose andassero come sono andate.

Bernardino Leon è comunque sicuro che i negoziati riprenderanno. Lo ha dichiarato in seguito a una dichiarazione congiunta dei Paesi arabi e occidentali in cui si chiede ai gruppi libici rivali di accettare “immediatamente” il piano elaborato dalle Nazioni unite. Non ci sono alternative, piccoli gruppi o singoli individui non possono boicottare il piano: così ancora il diplomatico spagnolo. Nel frattempo il parlamento di Tobruk, dopo aver criticato l’accordo, ha ribadito di voler concorrere al negoziato ma ha cambiato la sua delegazione.

Si vedrà nella prossima fase come le cose evolveranno, nel combinato disposto tra spinte contrastanti in Libia, contrastanti interessi in Europa e i giochi di guerra della Nato.

Il Consiglio di sicurezza dell’Onu da parte sua ha minacciato di sanzionare tutti coloro che ostacolano il processo negoziale. E il ministro Paolo Gentiloni, dichiarandosi ottimista, ha ribadito che l’Italia è pronta a sostenere gli sforzi dell’inviato delle Nazioni Unite nella sua missione di pacificazione della Libia. Inoltre informando il Parlamento sullo stato delle cose, Gentiloni ha anche spiegato che un intervento nelle acque territoriali libiche, nell’ambito di una fase tre della missione Eunavfor Med contro il traffico di esseri umani nel Mediterraneo, “non è possibile” senza una specifica richiesta del governo della Libia. Così dice il diritto internazionale e dovrebbe essere la bussola per cercare di rimettere ordine nel caos.

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