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Giovedì, 17 dicembre 2015

Pisapia, Zedda, Doria perchè buttare esperienze così?

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Non ci sto a ridurre la discussione sulle prospettive della sinistra, a cominciare dalle imminenti elezioni amministrative, a un puro elenco dei torti e delle ragioni. Essi ci sono, com’è evidente, ma vanno soppesati ogni volta con la lente dell’analisi dei fatti, cioè vanno ricondotti a quella dimensione oggettiva della politica che trovo purtroppo sempre più debole nel dibattito italiano.

Non c’è, nella nostra discussione, un di qua e un di là, uno spartiacque che separi irrevocabilmente il gruppo dirigente diffuso in diversi tronconi rispetto alle due o tre cose di fondo cui abbiamo messo mano sin dal momento della costituzione di Sel. Né sulla missione ultima che ci siamo sempre attribuiti: riaprire la partita, dunque unire, allargare, scomporre e ricomporre, piuttosto che diventare un altro partitino. Né sulla necessità di porre mano ad una nuova soggettività politica autonoma della sinistra, per quanto essa risulti un inevitabile attraversamento del campo di macerie da cui in diversa misura e storia ognuno di noi proviene. Né, infine, sul giudizio, doppiamente negativo, che ci siamo fatti sul Pd per come è diventato nella sua fase involutiva del renzismo. Per come Renzi ha condotto l’azione di governo sui nodi vitali del lavoro, del sapere, della manomissione costituzionale. E per come sta mutando la natura stessa del partito, spostandolo dal campo del centrosinistra, che così finisce di esistere, a quello del “partito della nazione”, alla cui massima e indistinta rappresentanza sociale corrisponde una pervasiva occupazione del potere in ogni dove nelle istituzioni.

Ma fatti salvi questi decisi nodi di fondo capaci di tenere insieme una comunità in termini di cultura, di prospettiva politica, di organizzazione, trovo naturale, persino scontato, che nel cammino emergano e si confrontino tra di noi delle differenze. Vedo queste differenze come una ricchezza, non come un vincolo. Una ricchezza che tiene viva la corda tesa del confronto, dello scambio. Il nodo politico del centrosinistra è senz’altro un punto di passaggio di questo percorso. Noi l’abbiamo voluto e ancora nelle elezioni del 2013 ci siamo fatti carichi di un programma, Italia Bene Comune, del tutto agli antipodi dell’agenda dell’attuale governo. Ma proprio perché l’implosione renziana dentro il Pd ha reso nulla quella prospettiva, una sinistra che concepisce se stessa autonoma ma non autosufficiente non può non considerare questo come un problema reale, né di Renzi né del suo “partito della nazione”, ma della politica italiana che non si esaurisce certo, oggi e in prospettiva, in questo Pd.

C’è qui uno snodo politico che il ragionamento di ieri di Sergio Cofferati sul nuovo soggetto politico – ragionamento che fortemente condivido – tende però più che a sottovalutare, a rimuovere. Il punto allora è come si risolvono le differenze che attraversano la nostra discussione, in altre stagioni avrei detto di come si portano a sintesi. Questa è o non è una necessità di cui si deve far carico, sempre, ad ogni giro di boa, il gruppo dirigente? Non vorrei apparire semplicistico, ma la questione delle alleanze alle amministrative ha una sua oggettiva incontrovertibilità, che va sottratta al politicismo.

Laddove riconosciamo, e per primi lo riconoscono i cittadini di quel territorio, che un’esperienza compiuta di buona politica, nelle politiche sociali, in quelle dei servizi e del welfare, dell’ambiente e dei diritti alle persone, può e deve essere trasferita in avanti, misurando qualità e coerenza dei programmi e delle persone, l’alleanza si fa, e noi per primi dobbiamo rivendicarla. Laddove non ci sono queste condizioni e l’esperienza risulta segnata dall’ ipoteca che il “partito della nazione” ha assunto a livello nazionale, l’alleanza non ha ragione di essere, e per noi si aprono altre strade.

Decidono i contenuti e il merito, come la qualità e la coerenza dei soggetti che l’interpretano. Dunque portare, nel passaggio difficile che stiamo compiendo, ciascuno di noi e tutti insieme nella costruzione di un campo largo, plurale, autonomo della sinistra, è una sfida da vincere. A Milano, Genova, Cagliari, per dire delle città maggiori, si sono messi alla prova in questi anni sindaci dalla grande personalità e con loro donne e uomini, amministratori e dirigenti ognuno dei quali ha costruito col proprio lavoro un pezzo importante della comunità che oggi siamo. Che sinistra saremmo se ci privassimo di quelle esperienze, di quelle competenze, dico anche di quelle differenze, ora che mettiamo a tema l’impresa di una nuova soggettività?

Commenti

  • alberto ferrari

    Caro Ferrara, intanto sgomberiamo il campo dalla questione del ” partito della Nazione”. Quando la SPD fu rifondata nel congresso del 1959 a Bad Godesberg una delle parole d’ordine principali fu quella di passare da partito di classe (Klassenpartei) a partito del popolo (Volkspartei), ed il significato era chiaro : porre sul piatto politico l’ambizione che sui valori del socialismo – poi dettagliatamente declinati nel programma – fosse possibile chiedere a tutti i cittadini non un semplice voto elettorale, ma la partecipazione a costruire una nuova cultura valida per tutto il pese, perché più bella, più giusta più degna di essere vissuta. La scommessa riuscì e dieci anni dopo Brandt divenne cancelliere e da quel manifesto, quasi più culturale che politico, prese vita in tutti i paesi europei quel processo di costituzione del modello di welfare che è una delle caratteristiche del modello sociale europeo e che ancora, se pure sempre più a fatica, riesce a resistere agli attacchi del neocapitalismo più feroce. Anche allora ci furono, legittimamente, a sinistra, coloro che contestarono al vertice della SPD questo centrale passaggio: da Klassenpartei a Volkspartei. E le ragioni furono per gran parte le stesse che oggi si usano contro il partito della nazione renziano: Non lo si contesta nel merito – se quel partito nella cultura che diffonde con il suo agire possa ancora dirsi socialista – ma si contesta l’idea che si possa impostare la propria politica di sinistra chiedendo a tutti di partecipare a costruire un paese migliore sulla base dei valori socialisti anziché impostarla sulla lotta di classe. In parole più semplici non si guarda all’elettorato per cercare di guadagnarlo alla propria causa, ma si fa la guerra ai vertici politici dei partiti nel tentativo di delegittimarli. Il “manifesto politico” di Bad Godesberg disegnava un idea di società e su questa chiedeva il confronto e la partecipazione a tutti perché riteneva tale idea migliore per “il paese”. Ci dirige la sinistra oggi ( della quale SEL sembra voler essere parte) sembra mancare di questo e dunque non può che viversi come klassenpartei. Per questo non è d’accordo con la continuazione di positive esperienze come Milano, Cagliari, Genova ecc. Mi auguro che ciò, come dici tu, possa essere rimesso in discussione.

  • Guido conti

    A mio parere la questione di fondo che attraversa questo periodo storico dell’Italia non sono i contenuti di un’amministrazione più o meno avanzata che si allea con la Caritas per alleviare le sofferenze umane…La questione di fondo è: si possono fare alleanze politiche con chi considera la Costituzione repubblicana uno strumento antico e la sta piegando ai dettami mercantili dell’ideologia del profitto sia nei contenuti che nell’organizzazione dello Stato? La politica, la democrazia e la sinistra non é l’agire collettivo che lotta per combattere la disuguaglianza che un potere di socio-sistema capitalistico acuisce a piè sospinto? A chi giova la presenza di qualche bravo amministratore che nell’80% dei casi poi si “carrierizza” in modo autoreferenziale? La storia del nostro campo di riferimento almeno da 10 anni è stracolmo di questo politicismo, di questa separatezza palazzesca….Anche Italia Bene Comune dopo l’adesione del PD alla maggioranza Monti non è stata un campanello profondo da ascoltare? E poi stiamo a chiederci perché il popolo che qualcuno stancamente ed inopportunamente definisce anche “nostro”, non vota o sceglie 5stelle? Perchè nonostante l’alto livello di sapere e conoscenza di moltissimi, la percezione popolare è “sono anche loro della casta”, perchè nel ventennio alle spalle, quali condizioni materiali generali si sono spostate in AVANTI concretamente? E aggiungo, quale operazione di “ceto dall’alto” ha funzionato allargando la platea della partecipazione e del consenso, prima di tutto culturale? La verità è che in tantissimi dovrebbero farsi da parte per elaborare la sconfitta storica che ci attraversa lasciando il campo attivo, fare spazio all’orizzontalità reale e non dichiarativa ed accettare di fare una vita magari meno agiata, come quella di chi scrive convinto di rappresentare tantissime persone che a differenza di me non hanno la politica nel sangue e non la vivono come passione vitale..ma che se sentissero o avessero la percezione di qualcosa di vero e differente, parteciperebbero, voterebbero, si attiverebbero per allargare lo spazio….
    Il professionismo politicista non nasce a sinistra, ma lì purtroppo si è diffuso…e questa profonda ed innegabile contraddizione va almeno ricosciuta….oltre che provare ad estinguerla…
    Il Centro.Sinistra non c’è più perché in fondo non c’è mai stato nell’approccio culturale diffuso, era un ripiego par colmare “tatticamente” uno spazio, come temo stia facendo Sinistra Italiana…
    Prima che anche quelli come me lascino il vascello per non affogare, ci si fermi qualche tempo a riflettere e ripensare lo stato delle cose….Correre da un’elezione all’altra con smania elettoralistica non è altro che inventare nuovi bisogni e commercializzarli dentro un negozietto, proprio nel pieno verbo capitalistico, questo lo ricordo a chi ancora ci autodenomina “offerta politica”….
    E mi sa che anch’io ho corso troppo in prospettiva dopo Riccione nella speranza di aver attraversato il deserto…….Un saluto speranzoso!

  • Guido Conti

    Per non sbagliare…..