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Lunedì, 20 aprile 2015

Quei ragazzi divorati in mezzo al mare dalla nostra indifferenza

migrante

Mio padre e mia madre sono venuti in Italia in aereo. Non hanno preso un barcone, ma un comodo aeroplano di linea. Negli anni settanta del secolo scorso c’era, per chi veniva dal sud del mondo come i miei genitori, la possibilità di viaggiare come qualunque altro essere umano. Niente carrette, scafisti, naufragi, niente squali pronti a farti a pezzi. I miei genitori avevano perso tutti i loro averi in un giorno e mezzo. Il regime di Siad Barre, nel 1969, aveva preso il controllo della Somalia e senza pensarci due volte mio padre e poi mia madre decisero di cercare rifugio in Italia per salvarsi la pelle e cominciare qui una nuova vita.

Mio padre era un uomo benestante, con una carriera politica alle spalle, ma dopo il colpo di stato non aveva nemmeno uno scellino in tasca. Gli avevano tolto tutto. Era diventato povero.

Oggi mio padre avrebbe dovuto prendere un barcone dalla Libia, perché dall’Africa se non sei dell’élite non c’è altro modo di venire in Europa. Ma gli anni settanta del secolo scorso erano diversi. Ho ricordi di genitori e parenti che andavano e venivano. Avevo alcuni cugini che lavoravano nelle piattaforme petrolifere in Libia e uno dei miei fratelli, Ibrahim, che studiava in quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia. Ricordo che Ibrahim a volte si caricava di jeans comprati nei mercati rionali in Italia e li vendeva sottobanco a Praga per mantenersi agli studi. Poi passava di nuovo da noi a Roma e quando era chiusa l’università tornava in Somalia, dove parte della famiglia aveva continuato a vivere nonostante la dittatura.

*Scrittirce

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