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Martedì, 15 settembre 2015

Riccardo Terzi. In memoria di un uomo politico speciale

Terzi

Poteva sembrare a prima vista uomo triste e solitario, tendente in apparenza quasi sempre al malinconico, ma quel suo stile di vita alquanto distaccato, piuttosto dimesso, finiva ogni volta per depistarti. In verità, dentro i tratti di quel singolare portamento c’era già tanto del suo modo di intendere la politica, e di metterla in pratica, a cominciare da se stesso. La politica come sobrietà dei gesti e delle parole, misura e profondità del linguaggio, cui sempre corrispondeva di riflesso una radicalità dell’analisi dei fatti reali, concreti, quei fatti che sempre segnano l’intreccio tra politica e vita quotidiana delle persone.

Ha attraversato mezzo secolo di mutamenti e stravolgimenti sociali e politici sospinto, in ogni tratto di strada percorsa, da quel che resta, in definitiva, la sua cifra personale di forte e strutturato dirigente del partito e del sindacato: l’esercizio intellettuale, il permanente esercizio intellettuale, come scavo e ricerca indispensabile ad una sinistra capace ogni volta di dipanare il nodo di una via d’uscita alle compatibilità del presente. Poteva farlo, come l’ha fatto, perché saldamente possedeva, ed esercitava, due specifiche caratteristiche che discriminano l’autentico dirigente politico dai tanti comprimari e figuranti che confondono l’agire politico come palcoscenico: l’autonomia del pensiero e il coraggio delle scelte.

Autonomia e coraggio, speculari l’una all’altra, agivano insieme e le ritroviamo come tratto d’unione costante dell’intero suo percorso politico, sin dall’inizio. Sin da quando, da giovane segretario della più complessa delle organizzazioni del Partito Comunista Italiano, quella di Milano, mette sul piatto della discussione la propria contrarietà alla strategia berlingueriana del compromesso storico nel nome di una unità a sinistra, così diversa e distante da quella che sarebbe poi diventata la parte “migliorista” di quel partito, a partire dalla quale costruire un’altra e contrapposta politica, quella dell’alternativa.

Autonomia del pensiero e coraggio della scelta si ritrovano, cristallini e fermi, nella decisione di lasciare il Partito Democratico immediatamente dopo il voto e a seguito della formazione del governo delle larghe intese. “Il partito politico è sempre lo strumento che si giustifica in vista di un fine – scrive nella sua lettera di dimissioni – e d’altra parte la parola ‘sinistra’ è un’espressione del sociale prima che del politico. E dal sociale occorre ripartire, dalle contraddizioni che ancora attendono di essere esplorate, rappresentate, organizzate. La sinistra è questo lavoro di scavo nel sociale. Il resto è solo chiacchiera”. E del sociale è parte decisiva il conflitto, è lì il luogo delle tumultuose modificazioni che scompaginano il mondo del lavoro, le comunità, il territorio.

Di questi sconvolgimenti del sociale la politica, quella dei partiti sempre più svuotati della spinta al cambiamento, delle istituzioni pensate e agite unicamente come concentrazione del potere, questo tipo di politica non è più all’altezza della capacità di una risposta risolutiva. Avrebbe bisogno di una radicale operazione di bonifica del linguaggio, per non mettere se stessa in posizione se non proprio contrapposta, senz’altro “divaricante, incomunicante” con la vita reale delle persone. Quest’uomo, solo a prima vista triste e solitario, investe ad un certo punto la sua intelligenza nel sindacato, non certo come ripiego ma come orizzonte di lungo periodo, per il fatto che il sindacato – come dirà in un uno dei suoi ultimi e raffinati interventi a Lecco sul nodo tra democrazia e lavoro – “non abita nelle sfere della politica, ma sta tutto immerso nella materialità delle condizioni sociali”.

Il tema della rappresentanza diviene, in tempi di crisi d’identità del sindacato, il nodo costante della sua ricerca. Ed è un tema quello della rappresentanza sindacale che, dirà, si discosta radicalmente da quella politica, perché il sindacato rappresenta “non un punto di vista sulla realtà, ma la realtà stessa, non un’opinione o un’ideologia, ma una condizione, e per questo essa è per sua natura più radicale, perché affonda nelle radici materiali della vita delle persone”.  Ancora una volta il punto di partenza e di arrivo del cammino tortuoso e accidentato della politica è la vita reale dei soggetti. Lì c’è quella cartina al tornasole che gli consente una lettura critica coraggiosa e autonoma insieme, come nel suo stile, della contrastata nozione di “antipolitica”, “un groviglio vitale ed esistenziale che reclama di essere riconosciuto e rappresentato, e vedere in questo magma di sofferenze e di rifiuto solo il lato eversivo e distruttivo è l’errore tragico che stiamo compiendo”.

Se la sinistra che vogliamo mettere in campo saprà incrociare il pensiero, la ricerca, l’esercizio intellettuale, lo stile dell’essere e del fare, l’etica della responsabilità soggettiva e comune, allora quest’uomo intenso e meditabondo, appartato e determinato, autonomo e coraggioso, sarà con noi perché noi potremo dire di aver imparato da lui.

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