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Mercoledì, 26 marzo 2014

Afghanistan, tempo scaduto per la missione Isaf. Cosa resta e l’eredità che lasciamo

afghanistan-Italia

Nel novembre del 2001, a poche settimane dall’inizio dell’operazione militare degli Usa contro il regime dei Talebani, Maria Grazia Cutuli, giornalista del Corriere della Sera, venne assassinata sulla strada per Kabul. Cutuli si trovava là per ragioni legate alla sua professione, spinta da quel desiderio di dare conto in presa diretta della realtà delle cose, fino a mettere in gioco la propria vita. Un desiderio che continua a caratterizzare l’attività del migliore giornalismo sul campo. A lei, nel distretto di Herat,  fino ad oggi sotto il controllo italiano, è dedicata una scuola, vero e proprio fiore all’occhiello della presenza italiana nel territorio.

Le informazioni che provengono dal locale Prt (Provincial Reconstruction Team, l’organismo che presiede alle funzioni civili della missione militare Isaf), dicono che la scuola funziona da due anni, è  stata interamente pagata grazie ai fondi della Fondazione Cutuli ed ha esaurito tutti i posti disponibili: 400 bambine e 500 bambini, che si alternano a turni, le prime la mattina, i secondi nel pomeriggio, in classi che non vanno oltre i 28 studenti.  Una sfida vinta, sostengono le autorità militari del nostro Paese, perché sino a tredici anni fa i Talebani impedivano alle bambine di studiare e imponevano la lettura più oltranzista del Corano nelle classi maschili. Ma i Talebani continuano ovviamente a scorrazzare nel Paese, attentissimi a rinsaldare i punti di forza acquisiti in mille modi e pronti a riportare a zero ciò che fa impaccio alla loro forsennata ortodossia. Come sempre, le operazioni di immagine non reggono alla dura prova dei fatti. E troppe ce ne sono di questi fragili frutti, eredità di una guerra crudele, che finisce senza mai finire, che moltiplica le tracce un spudorato business modernizzatore a Kabul mentre si allunga la scia di sangue degli attentati a tutto campo dei gruppi fondamentalisti, che la guerra non ha affatto stroncato ma dislocato e riorganizzato secondo nuove strategie e inedite alleanze.

In attesa che il campo sia sgombro dei contingenti Isaf e che i rapporti tra le fazioni in lotta per il controllo del Paese vengano chiariti dalle elezioni presidenziali del 5 aprile prossimo. Dove Karzai gioca la partita della sua vita. Perché, se il 2014 è l’anno della fine della presenza Isaf in Afghanistan e del ritiro della Nato, non è però l’anno della pacifica stabilizzazione di quel Paese. La scuola Cutuli – lo ammettono gli stessi responsabili sul campo – come altre strumentazioni di tutela sociale in giro per il Paese – è garantita solo dalla presenza dei contingenti Isaf. C’è stata una decisiva preponderanza della parte militare nel garantire l’operatività del Prt – che doveva viceversa svolgere compiti civili – su scala locale e dell’intero Paese. Questa preponderanza ha precluso o ridotto gravemente l’apporto della cooperazione civile, italiana in modo particolare, ostacolando nei fatti una più forte interazione con la popolazione locale, che forse avrebbe dato frutti migliori. Mentre molti impegni della Cooperazione italiana si sono persi o sono rimasti bloccati, come la celebre strada avviata nel 2006 con il fine di collegare in 140 chilometri Kabul a Bamian. Secondo le promesse, doveva essere terminata in due o tre anni, oggi risultano costruiti solo una settantina di chilometri e i costi sono lievitati alle stelle.

Attività di formazione per le nuove forze di sicurezza afgane: questo è il titolo dei compiti che si attribuisce per il futuro la Nato – braccio militare mondiale a direzione Pentagono e surrogato strategico anche per  un’Europa, da sempre priva di un’idea comune tra i Paesi Ue di che cosa significhi Difesa, Sicurezza, politica europea verso il mondo. A questi compiti di formazione del nuovo personale afgano le autorità militari italiane si dichiarano disponibili. Salve ovviamente le decisioni del Parlamento.

La vicenda afgana ha avuto tutte le caratteristiche – nella strategia globale del presidente Bush – di un’operazione di guerra con forti intenzioni di controllo geopolitico di quel decisivo territorio – decisivo per tante ragioni e soprattutto per essere là dove è – e risvolti di sapore neo-post-coloniale. Tredici anni, da quel fatale 2001, con le Torri crollate a New York e l’attacco a Kabul –  che hanno visto il fallimento della strategia bushiana – vinciamo qui e ora, senza alcun problema – ma hanno anche lasciato non pochi sedimenti che tornano utili agli Usa di oggi: dalle basi in Afghanistan al recuperato ruolo della Nato, quell’Alleanza che sembrava destinata a deperire e che la funzione di comando decisiva svolta in Afghanistan ha conquistato una centralità globale, come mai aveva avuto in precedenza. Mentre si è indebolito il ruolo dell’Onu e si è rafforzata la legittimità al ricorso all’uso della forza militare per le ragioni più diverse e per l’iniziativa di chi se ne voglia assumere la responsabilità. Come è andata a finire la Libia di Gheddafi  è radicalmente dentro questa logica, si spiega solo capendo come il mondo è cambiato a partire dall’Afghanistan.

Il peace keeping, il peace enforsing, i droni, i bombardamenti, gli effetti collaterali. La vicenda dell’Afghanistan è davvero emblematica. Capirla per quello che è stata veramente e continua a essere, al di là delle cose buone che – in un simile contesto globale e per ragioni soprattutto che ineriscono allo stare da truppe di occupazione in quel contesto – il contingente italiano e le autorità preposte  hanno certamente saputo fare, sarebbe cosa utile. Per tutta l’Italia. Per tante cose nobili che ancora hanno valore e anche perché il che fare rispetto all’Afghanistan continuerà a essere probabilmente materia di scelta sul piano delle nostre risorse di bilancio.

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