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Mercoledì, 18 febbraio 2015

Costruire il nemico

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Le immagini raccapriccianti dei prigionieri inermi sgozzati davanti al mondo, per di più da un boia dal perfetto accento britannico (globalizzazione del terrore), sono pensate dai terroristi dell’Is (Stato Islamico) con grande acume mediatico, come la performance necessaria a che, chi guarda, si identifichi nelle vittime e abbia paura di diventare un possibile bersaglio ravvicinato.

Chi guarda siamo noi, gli europei. Oggi, con la Libia nel caos, siamo ancora più direttamente noi, gli italiani, dirimpettai di quel Paese dilaniato dal caos che ha fatto seguito all’assalto alla baionetta del 2011. Assalto a cui l’Italia partecipò con lo sganciamento di quasi ottocento bombe sulle città libiche, contro ogni “legalità internazionale” – abusato concetto politically correct che accompagna tutte le avventure belliche occidentali, sempre contro ogni ragionevolezza politica e anche, da parte di chi a vari livelli aveva allora la responsabilità del nostro Paese, contro ogni calcolo di convenienza. Per l’Italia, in quella scelta infelice, valgono tutte e tre le osservazioni e avere oggi un ministro degli Esteri inconsistente e smemorato come Gentiloni e una ministra della Difesa che pensa come un generale allo sbando – l’ineffabile Pinotti – non può non costituire un denso elemento di preoccupazione. Perché Pinotti non chiede ai nostri generali – ne abbiamo di eccellenti – qualche lezione sulla materia chiamata “caos delle zone messe nel caos dalla strategia dell’esportazione della democrazia da parte occidentale”?

Chi, da questa parte del mondo, guardi quelle feroci esecuzioni, soprattutto se il Paese da cui si guarda è nelle mani di personaggi come quelli di cui sopra, del tutto incapaci di dire cose all’altezza dei problemi, è portato a identificarsi nella vittima non per umana empatia ma per intima, personale paura, percependo sulla pelle che quelle scene non sono un orrore che riguarda altri, ma riguarda noi, perché siamo noi il nemico a cui il messaggio è diretto. Siamo noi l’oggetto della costruzione del nemico, su cui l’Is oggi si esercita nel forsennato dipanarsi della sua strategia espansiva, che ha nello strazio del corpo del nemico – metafora del male assoluto – il focus attrattivo per nuove leve. Di giovani, ahinoi, pronti a scannare il nemico e a morire per l’odio ideologico di cui sono stati e si sono nutriti.

Dare corpo incarnato al nemico è il più potente lubrificante dell’ideologia del nemico, del magmatico ancestrale nesso amico/nemico, soprattutto quando a guidare tale performance è un fondamentalismo totalitario e totalizzante come quello dell’Is, dettato da un’ideologia che mette Dio a depositario e sentinella dell’odio.

La categoria del nemico è una costruzione sociale. Essa è l’esito, secondo le precise circostanze storiche in cui avviene, degli interessi, delle aspettative, dei timori o degli odi, e dei conflitti che si agitano entro questa o quella società. La costruzione del nemico, nel momento in cui si avvia, ha bisogno di un forte riscontro identitario della società che se ne fa promotrice e che, mentre ricorre alle risorse culturali e simboliche di cui dispone per definire i tratti del nemico, definisce ciò che essa stessa è e ciò che la differenzia dal nemico. Loro i fedeli del Califfo, noi il peggio del mondo.

Proprio questo sta facendo l’Is, impegnato nella costruzione del Califfato nero, ipotesi di Stato islamico oscurantista, feroce oltre ogni misura, che sulle orme dell’antico Califfo, si districa tra le rovine delle guerre e dei dopoguerra voluti dall’Occidente e implementati dalle oscure trame intessute dai vari potentati arabi, su cui continua a restare calato il velo del “meglio lasciar perdere”. Perché sono “nostri” alleati.

Il nemico esterno dello Stato islamico non è soltanto l’Europa come astrazione storico-simbolica, metafora di tutto ciò che il fondamentalismo islamista aborre, e nemmeno soltanto il vecchio continente, come concreto perimetro geografico e luogo di potere, contro cui far convergere l’odio adrenalinico dei miliziani incappucciati. L’Is è andato oltre, muovendosi a tutto campo con fulminante maestria mediatica, e sono sempre più gli abitanti in carne ed ossa dell’Europa, fragili e vulnerabili, ciascuno individualmente e tutti insieme come comunità, a essere diventati oggetto della costruzione del nemico esterno e potenziale bersaglio a immediata portata di mano di “lupi” solitari, sanguinarie cellule dormienti e poi, all’orizzonte, assalti alla grande, come quelli ipotizzati dal filmato contro Roma, centro mondiale della Cristianità. Noi come nemico esterno, perché, mai come oggi, sarà bene ricordare che è soprattutto il mondo musulmano quello sottoposto a un livello inaudito di odio e di violenza da parte dell’Is, l’empio mondo, quello musulmano, in gran parte da purificare, omogeneizzare, sottomettere in toto: la partita più importante per l’Is, per intraprendere le altre.

Sarà bene ricordare a questo proposito, che, secondo i dati che abbiamo a disposizione, nel 2013 il 65% delle vittime, l’85 % degli attacchi sono avvenuti in Iraq, Afghanistan, Pakistan, Siria, Nigeria, Yemen, Somalia. Affari loro? Ovviamente, peccato che noi c’entriamo alla grande in tutti quei “loro” e torna la domanda da cui dobbiamo partire: Dove abbiamo sbagliato?

Ma oggi siamo noi in carne ed ossa il nemico esterno, non a caso sempre più affetti da sindrome di accerchiamento – i successi di Matteo Salvini dicono questo – e sempre più propensi ad affidarci alla risposta militare o a lasciarci convincere che la migliore risposta non può che essere quella. Il grande circo mediatico ha imboccato la strada: per conformismo, convenienza del fare audience, incapacità di pensare la domanda centrale da cui avviare qualsiasi ragionamento. Ancora una volta“Dove abbiamo sbagliato”? Nessuno se la pone, a cominciare dalla sinistra. Ma se non si comincia da quella domanda è difficile che un’altra sinistra venga fuori. Quella sinistra è “l’altrove” da cui è necessario oggi guardare al mondo per non cadere nella corsa all’indietro verso cui sembra che il mondo irresistibilmente vada.

E’ in via di declino tutto quello che aveva consentito all’Europa di costruire lo spazio pubblico della propria rinascita umana e del proprio rinascimento di civiltà, secondo una visione delle cose alternativa agli orrori delle lunga guerra civile – le due guerre mondiali questo hanno rappresentato per il vecchio continente – che l’aveva disastrata fin nelle viscere.

Non c’è più’Europa paragonata a Venere, in contrapposizione agli Stati uniti accostati per metafora a Marte, all’epoca delle guerre di George W. Bush. E non ci può più essere un Umberto Eco che al tassista pakistano che gli chiede insistentemente quale sia il nemico principale del suo Paese, risponde che non ce ne sono, che lui non ne conosce. E poi si mette a riflettere a come viene fuori il nemico.

Pensare e costruire il nemico: si è ricominciato a farlo fa da tutte le parti. Fantasma ancestrale dell’operare umano. Ne sappiamo qualcosa in Europa, che è di nuovo attraversata da antichi antisemitismi e crescenti islamofobie. E altro.

La costruzione del nemico è fatta per scaricare su di lui, il nemico per antonomasia, tutte le colpe o per attivarlo nella parte del nemico che vuole combattere l’altro da sé, quello che gli incute paura – noi abbiamo paura dei terroristi – o verso cui nutre un inestinguibile odio ideologico -l’odio islamista verso di noi.

Che cresca nell’opinione pubblica europea una domanda di intervento bellico, che in Italia si discuta di unità militari pronte alla bisogna e avventatezze del genere come di una scelta necessaria, non fa che favorire la fabbrica dell’odio a cui si abbevera l’Is. La morte dei loro adepti è messa in conto: martiri della fede, che saranno ricompensati in un’altra vita. Arma potentissima di proselitismo. E li aiuta – sarebbe un capitolo di antropologia umana su cui riflettere seriamente – anche la smemoratezza occidentale dei guai che gli orrori delle “nostre” guerre esportatrici di democrazia hanno combinato nell’immaginario delle nuove generazioni di quei Paesi, favorendo aberranti fidelizzazione all’orrore.

Anche qui urge fare i conti con la domanda: Dove abbiamo sbagliato?

Sarà il caso davvero di lasciar perdere la via delle armi e cercare la risposta a partire da questa domanda e dall’altra contigua del dove rischiamo di sbattere ancora la testa. Nel caos della Libia il caos dello sparare non si sa bene dove e con quale finalità tattico-strategica di tipo militare. Almeno questo, direbbe un generale che sa il fatto suo. Per non parlare delle finalità politiche. Noi e i nostri interlocutori e alleati del mondo arabo. Noi e gli affaristi che guidano le scelte di troppi governi occidentali. Noi e il fantasma dell’Europa senza nemici ai confini, che abbiamo sognato e rischiamo di perdere definitivamente.

 

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