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Giovedì, 30 giugno 2016

Gli apprendisti stregoni dell’Europa

Germany Italy

Non ci potrà essere alcun negoziato della Ue con la Gran Bretagna prima che abbia avuto luogo la notifica dell’uscita del Paese dall’Unione, sulla base dell’articolo 50 del Trattato. Questo è il passaggio decisivo contenuto nella bozza di dichiarazione comune degli ex 28, ora 27, capi di Stato e di Governo europei, riunitisi nel summit di Bruxelles per decidere intorno alla Brexit. In altre parole, niente di diverso da ciò che sin dal primo momento, cioè quello delle sue dimissioni, a poche ore dai risultati referendari, aveva dichiarato Cameron. Il premier britannico infatti, disastrato nelle sue aspettative dal voto pro Brexit, si era ben guardato da alludere a tempi certi, da concordare rapidamente. Anzi, passando la palla al suo futuro successore, aveva subito chiarito che sino ad allora – non prima di settembre, perché i tempi sono quelli, aveva spiegato – nulla potrà essere deciso. Infatti lui è ormai fuori gioco e non intende occuparsene. La nuova Europa a 27 ha deciso di conseguenza di non forzare la mano al destino, di non fare forzature per costringere il Regno unito a trattative preventive, secondo quanto avevano auspicato in un primo momento Hollande e Renzi, e aveva dichiarato subito, con una certa furia, Juncker, capo della Commissione europea. Per questa furia, forse, lo stesso Juncker è stato tenuto lontano dal nuovo direttorio subito inventato.

Perché così funzionano le già asfittiche istituzioni europee: con preventive riunioni a geometria variabile per rispondere alle continue emergenze o ai problemi di fondo che affannano l’Unione. E come l’Unione è andata avanti, con riunioni a Bruxelles dei governi che là prendevano accordi e poi riferivano come volevano ai Parlamenti nazionali e i Parlamenti non davano mostra di grande interesse per il “dossier” Europa.

L’immigrazione ha dimostrato e confermato ogni giorno di più come vadano le cose. Così come le scelte di politica estera. Siria, Russia, Turchia e via discorrendo. Ogni Paese un gioco diverso.
Sulla Brexit tutto si è stemperato in un testo che non dice in realtà nulla e che porta il segno decisivo, una volta di più, delle opinioni e delle preoccupazioni della Cancelliera tedesca, meno aspra fin dalla prima ora verso la Gran Bretagna e preoccupatissima per gli effetti che la vicenda potrà avere. Per il resto il documento è poco più che una sfilza di dichiarazioni generiche su che cosa bisognerebbe fare per rispondere alle preoccupazioni dei popoli europei. E’ già molto che se ne faccia cenno. E anche dei giovani, messi là come un’appendice accattivante. Tutto sarà ripreso, vedremo come, in un ennesimo summit convocato in settembre a Bratislava.

Matteo Renzi, nell’inedita parte di associato al direttorio, ha dichiarato che il messaggio del vertice “è di qualità” e che dobbiamo aspettarci l’avvio di una “interessante discussione” nei prossimi mesi sull’Europa. Bisognerebbe che alla discussione fossero seriamente associati i parlamenti dei Paesi europei, oltre a quello europeo, e che il dibattito pubblico sull’Europa cambiasse segno, uscisse dalla insopportabile routine dell’europeismo di maniera che rimane materia di ristrette élites, che hanno come unica stella polare gli interessi di banche e finanza. Sulle banche e sul sistema bancario Renzi ha lanciato il suo guanto di sfida – si fa per dire – alla Cancelliera. Vuole assicurarsi la possibilità di una qualche flessibilità nel caso in cui in Italia ci fosse bisogno di salvare le banche e ha ricordato a Merkel che nel 2003, quando ne ebbero bisogno Francia e Germania, Il capo del governo italiano, che allora era Berlusconi, diede il suo consenso. Ma Merkel non pare colpita al momento dalla mossa italiana. Si vedrà.

C’è chi dice che l’Unione europea non esiste più da tempo, che la sua morte è avvenuta, fuor di metafora, con la conclusione della vicenda greca, un anno fa, quando il partito di Tsipras fu umiliato ai tavoli della trattativa e il popolo greco costretto a bere la cicuta dell’ortodossia ordoliberale della Germania. Forse non siamo arrivati a una morte definitiva ma i segni non sono certamente tali da incoraggiare il benché minimo ottimismo. Eppure siamo costretti a prenderci cura del futuro dell’Europa. Perché senza un futuro degno di questo nome l’avranno vinta di nuovo nazionalismi infami, che si nutrono di razzismo e nxenofobia, ripiegamenti identitari, processi disgregativi. Bisognerà affrontare il problema dall’inizio, ripercorrere le tappe e gli snodi essenziali della storia.
L’Europa, nella forma data alla sua governance e con le finalità economiche finanziarie assegnatele dalle élites continentali, da tempo non è più amata dai popoli, anzi un numero crescente di cittadini e cittadine europee la odiano, se ne vogliono liberare. Forse in prevalenza si tratta di adulti e anziani, come indicano i dati della britannica Brexit, ma i giovani e giovanissimi, se l’andamento delle cose resterà così com’è oggi, non tarderanno ad odiarla anche loro, e forse più di quanto già non la odino gli anziani di oggi. Infatti le loro condizioni di domani, se nulla muterà, saranno peggiori di quelle degli anziani di oggi.

Della nobile e appassionante utopia europeista, dietro cui si fecero belli vincitori e vinti del secondo mattatoio bellico del Novecento, rimane oggi solo il fantasma. E’ da qui che bisogna partire e ripartire ostinatamente per capire il disagio europeo, e fare davvero i conti col rischio di una definitiva e irreversibile crisi dell’Unione. I motivi dell’insoddisfazione sono tanti, la miccia può essere spesso la paura dell’assedio di profughi e migranti, ma anche questo è il riflesso, diretto o indiretto, di una condizione ormai strutturale di insoddisfazione e disagio popolare, che viene pompato ad arte come fonte di paura dalle formazioni di estrema destra che ormai pullulano ovunque. C’è dietro in molti Paesi l’impoverimento reale di settori sociali che una volta pensavano di poter vivere in sicurezza, loro e i loro figli, e che oggi non vedono più nessuna possibilità per il futuro. O temono che questo avvenga.

Ostilità che nasce dai fatti, dalla verifica di una crescita economica che non c’è, dalla evidente mancanza di equità su tutti i piani, da regole sul debito che strangolano i più deboli e favoriscono i più forti. La storia europea, fino a metà del secolo ventesimo, ha alimentato soprattutto odio e inimicizia tra i popoli, e se l’utopia spinelliana sembrava poter rappresentare la svolta benefica che gli spiriti migliori del vecchio continente aspettavano, i passi concreti che hanno portato a Maastricht e dintorni sono stati la negazione di quella utopia. Hanno pensato e realizzato l’Europa alle spalle dei Parlamenti, ingannando i popoli con la favola bella delle magnifiche sorti e progressive della nuova Europa. E’ rimasto , per i giovani che ne hanno potuto usufruire e godere, Erasmus. Un generazione, quella di Erasmus, che prefigura, per come vive, pensa, ragione, la dimensione di un’effettiva generazione di giovani europei e europee. Generazione bellissima, ma anche senza potere e per lo più senza politica, se è vero, come appare dai risultati del referendum britannico, che molti ragazzi e ragazze che ne avevano diritto non sono neanche andati a votare. Perché l’Europa di Maastricht è riuscita nell’intento voluto di realizzare la supremazia dell’economia sulla politica e della residualità della politica stessa.

Gli interessi di bottega di ogni Paese fanno il resto, mettendo in evidenza le divaricazioni di interessi geopolitici che impediscono all’Europa, per esempio, di avere una politica estera e di difesa in comune, e lo spiccato interesse della Germania verso la parte orientale –Russia, Turchia – a fronte della mancanza di una politica in comune verso il Mediterraneo di Paesi come la Francia, la Spagna, l’Italia, conferma l’assenza di una comune idea di rapporti col mondo.

Henry Kissinger, leggo su Limes, pensa che il Brexit sarà il momento buono per rinsaldare i legami tra Londra e Washington e per permettere all’Europa – ma Kissinger nell’Europa non ha mai creduto – di riflettere sulle proprie debolezze e assumere un ruolo più attivo – anche sotto il profilo militare – in politica estera.
Insomma ognuno può dire la sua perché una parola univoca dell’Europa non esiste. Esiste solo la pratica dell’applicazione minuziosa, burocratica e asfissiante dei diktat neoliberisti.
Insomma l’Europa è materia complicata e incandescente su cui la sinistra del futuro o si sperimenta a fondo oppure neanche nasce.

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