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Giovedì, 16 luglio 2015

Grecia, che il parlamento italiano almeno ne parli

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Il Parlamento ellenico, in una drammatica seduta andata avanti per gran parte della notte, anche sforando i tempi (la mezzanotte di ieri) concessi dalla Troika – peccato veniale però, basta che il voto avvenisse prima della riapertura delle banche e la Grecia avrebbe goduto, come è successo, del perdono europeo – ha approvato il pacchetto al cianuro firmato da Alexis Tsipras nella trattativa con La Troika. Il voto è costato le dimissioni di esponenti di rilievo di Syriza, a partire dal ministro delle finanze Yanis Varoufakis, il “no” di una parte significativa dei parlamentari di quell’area e piazza Sintagma – quella della grande festa popolare post referendum – attraversata di nuovo dalla rabbia popolare e dagli scontri tra polizia e gruppi radicali. Non sappiamo come ne uscirà Alexis Tsipras e anche questo aspetto è magna pars della tragedia greca in atto i questi giorni.

Si vedrà nei prossimi giorni come evolverà tutta la situazione. Ma il tempo della verifica non sarà affatto né breve né lineare perché le cose non sono neanche lontanamente sistemate. La Grecia è oggi completamente alla mercé sia dei creditori sia soprattutto della perversa logica che ne sostiene la potenza simbolica e la micidiale presa su gran parte dell’opinione pubblica: quella del giudicare, disciplinare, ricompensare. Da una parte chi non riesca a farcela col debito dall’altra chi ce la metta tutta per farsi dire che sta compiendo i passi necessari. Il godimento di Renzi, per esempio, di fronte alla Cancelliera.

Non basta affatto il voto del Parlamento greco per approvare l’accordo. La prosecuzione delle trattative dell’Eurogruppo è infatti vincolata alla decisione di altri sei parlamenti dell’Ue, che mantengono in misura diversa uno scampolo di sovranità sulle scelte nazionali e pertanto devono essere chiamati a votare. Si tratta dei parlamenti di Francia, Germania, Slovacchia, Finlandia, Estonia e Lettonia, con maggioranze, in ognuno, che hanno idee anche molto diverse sulla questione greca. Inoltre altri quattro parlamenti – Irlanda, Austria, Malta e Slovenia – potrebbero essere egualmente chiamati a decidere perché i loro statuti prevedono che il voto sia obbligatorio quando il programma di aiuto per uno Stato membro comparti un aumento dei fondi messi a disposizione da ogni singolo Stato dell’Unione. Al momento l’aumento di tali fondi è assai difficile da calcolare e dunque anche per questo la cosa andrà ancora per le lunghe.

L’eurozona e la stessa Ue rappresentano di fatto l’unione di Paesi con interessi e situazioni di partenza a tutti i livelli così diverse che, mettendosi insieme, hanno soltanto alimentato le divisioni e le contrapposizioni tra quelli che vengono considerati Paesi virtuosi e quelli non virtuosi, tra i “risparmiatori” e gli “scialacquatori”, tra chi ce la fa meglio, perché ha la cultura adatta per farcela e chi no. Così ci spiega, ahinoi, stando al canone nordico dell’approccio etico alla materia, un giornalista tedesco sempre invitato ai talk show de La 7.

Ma l’occhio e la mente – per non parlare del cuore che è del tutto assente da questi nostrani dibattiti – non arrivano al gigantesco deficit che sta in realtà alla base del fallimento dell’Europa. Un’Europa di cui – dobbiamo dirlo con chiarezza – si discute sempre più vanamente dal momento che i conti non verranno mai messi in ordine, in un sistema di creditocrazia così radicato, ramificato e potente da averne paura. Mettere insieme le diversità di sistema più diverse senza costruire politicamente l’ordinamento democratico dello stare insieme, che ne permettesse da subito il percorso verso la trasformazione di quelle diversità in un insieme virtuoso e solidale, ha comportato da una parte l’ormai performativa ed esplosiva competizione sui conti in ordine, dall’altra la crescita delle forze populiste, i ripiegamenti nazionalisti, le torsioni estreme dell’ultradesta, anche con foschi richiami al nazismo.

Per questo rimane pesantemente all’ordine del giorno, e non si esaurirà, lo scontro tra chi vorrebbe l’uscita della Grecia e chi invece la teme, per le ripercussioni che potrebbe comportare per i Paesi più esposti – come quelli dell’area mediterranea ma in realtà anche la Francia. O come il Regno Unito, che non sta nell’eurozona ma non vuole misure che aggravino i rapporti con l’Ue, come ha ripetuto i premier conservatore David Cameron, che è contrario al salvataggio della Grecia, pur dichiarandosi disponibile ad aiuti “generosi”, così ha detto, nel caso in cui il Paese ellenico dovesse abbandonare l’eurozona. Siamo orami alla solidarietà tra europei in forma di elemosina.

Lo scontro più o meno latente tra i Paesi dell’eurozona e dell’Unione è ormai un ingrediente di fondo di questa pagina oscura della storia europea contemporanea, così intensamente attraversata anche dai fantasmi di altre pagine di storia europea. Bisognerebbe farne un promemoria.

Anche in Spagna si discuterà dell’accordo, benché in quel Paese nessuna norma lo renda obbligatorio. Il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy ha annunciato infatti che chiederà al parlamento di Madrid di discutere e votare il piano di “salvataggio” della Grecia. Anche le ragioni che Rajoy ha messo sul tavolo per spiegare la sua decisione non hanno nulla – come era prevedibile – di quell’alto senso della politica che oggi sarebbe necessario per parlare di Europa. Fanno parte del solito capitolo ragionieristico della maggiorazione dei contributi che l’operazione comporterà per i Paesi membri e dunque per la Spagna.

La tragedia che si svolge in Grecia in questi giorni ha i caratteri dell’archetipo della tragedia. Continua ad andare in scena giorno dopo giorno, con performance diverse ma dense tutte di un drammatico senso dell’ineluttabilità, che ne evidenzia la dimensione di partita perduta, di finale di tragedia incombente. Per quel Paese in primis, ovviamente ma, va subito aggiunto, per l’intero continente europeo.

Per questo, per la lezione storica che in essa è racchiusa e per le implicazione che direttamente si riverberano sull’Italia, il Parlamento italiano dovrebbe esserne investito e dovrebbe intensamente parlarne, mettendo in chiaro molte questioni rimaste in ombra degli ultimi anni, molte ipocrisie sulle responsabilità che portarono allo stato di eccezione del 2011, con l’avvento etero diretto del governo tecnico di Mario Monti e con tutto quello che seguì: i molti giochi e giochetti soprattutto di una classe politica intenzionata a salvaguardare rendite di posizioni più che a fare davvero i conti con i problemi del Paese. Infatti siamo dove siamo.

In Italia non esiste nessuno scampolo di sovranità del Parlamento su una materie come quella del “salvataggio” greco. Il governo non è obbligato a discuterne in sede parlamentare e a richiedere il voto del Parlamento. Con la riforma dell’art. 81, che introdusse nel 2012 il pareggio di bilancio in Costituzione, con una tale densità numerica del voto (unanime di Pd, PdL e Terzo Polo) e con il quorum di 214 voti su 321degli aventi diritto che evitò il referendum popolare confermativo, tutte le decisioni che il governo prende in sede europea sulla materia economico finanziaria, non hanno bisogno di ulteriori passaggi.

Ma anche a causa di questa estrema riduzione della sovranità parlamentare su un aspetto che è decisivo per la vita del Paese bisogna che se ne parli, che il Parlamento, i gruppi politici là presenti chiedano un dibattito. Il regolamento della Camera prevede la forma della Comunicazione del governo, in cui il governo non si limita all’informazione dei fatti ma deve confrontarsi col dibattito e in cui le forze parlamentare possono presentare mozioni.

Anche perché rimettere in discussione l’articolo 81 oggi, di fronte alla lezione greca e alle incognite del futuro, è una scelta di responsabilità verso il Paese e verso quegli “italiani” di cui tutti, a cominciare da Renzi e dai suoi ministri e ministre si riempiono la bocca. Ed è l’occasione per aprire una vera, profonda, libera discussione sull’Europa. Dovrebbe stare a cuore soprattutto a chi ancora si dice europeista.

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