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Giovedì, 22 maggio 2014

Grillo, Berlinguer e il consenso fine a se stesso

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Se dovessimo elencare le differenze tra la politica di Berlinguer e quella di Grillo questo articolo avrebbe la consistenza di un tomo dell’Enciclopedia Britannica, tanto ci corre tra i due. Cos’è un partito, cos’è la democrazia, cos’è la Costituzione, cos’è l’Europa, cos’è un avversario. Cos’è soprattutto la questione morale, è da qui che partiremmo. Ma risulta più facile, più breve, dire tutto in una sola parola: la differenza delle differenze tra i due è nello stile. Perché “lo stile è l’uomo” (Georges-Louis conte di Buffon nel Discorso sullo stile: libro da spedire in dono a Beppe, Matteo e Silvio, che si rifiuta però di leggere, così si giustifica, quel che scrivono gli juventini. Alexs il greco invece l’ha mandato quasi a memoria, e la differenza con gli altri si nota). Ma incurante del pericolo che è sempre di più il suo mestiere, il comico che non fa ridere in ogni città che tocca nella sua tournée acchiappa un personaggio della storia e lo fa suo.

A Milano Stalin, a Torino Hitler, a Firenze tocca al caro Enrico. Resta da vedere se in chiusura, a piazza San Giovanni, ingaggerà Papa Francesco oppure Giuseppe Garibaldi. Sta sondando la rete per decidere chi dei due conviene di più. Più la sua ascesa procede e più il suo Pantheon cresce di confusione storica, di affastellamenti insensati, e tutto questo si spiega, anche qui, in una parola, una parola sola: l’assenza di politica. Sua e di questi tempi, dunque anche nostra. Adesso rovesciate questo stato di cose di trecentosessantagradi ed ecco che vi apparirà lui, Enrico Berlinguer. E con lui la politica.

Dura, conflittuale, pensata, studiata, partecipata, scelta. Più che nostalgia per quel che era allora, c’è sgomento per quel che è, o piuttosto non è, oggi. Ci ha portati qui, in questo desolante spazio vuoto del presente, la nostra ammainante rinuncia collettiva nel restare “fedeli agli ideali della nostra gioventù”, per dirla con le stesse parole di Berlinguer. Gli ideali, non i partiti. Sono merce diversa e noi l’abbiamo confusa. E su questa nostra rinuncia, lenta e corrosiva in pari misura, si è esercitata l’altra di politica, coi suoi di ideali, piegando coscienze, diffondendo senso comune, forgiando simboli e miti identificativi, quasi sempre rintracciabili nei punti bassi del supermarket delle idee correnti. Ed è così che adesso tocca a lui salire sul palco e urlare a squarciagola insulti e sproloqui, la sera prima andando oltre Hitler e quella dopo proclamandosi erede di Berlinguer senza che buona parte di chi oggi l’ascolta e lo vota abbia la resipiscenza critica di chiedergli: ma cosa diavolo stai dicendo?

Giunti a questo punto bisogna dire che poco importa il fatto che tocchi temi giusti, temi veri e reali, se poi li colloca dentro la dissoluzione della memoria, la vacuità di una proposta, l’imbroglio di una storia presentata fin qui come male assoluto e la cui palingenesi è possibile unicamente cliclando un “mi piace” sul movimento che ha creato. Se il cittadino elettore va un po’ più in là di questo, cominciano i problemi di cosa significhi in qualsiasi organizzazione o movimento o partito, la partecipazione e la democrazia. La verità è che questo spazio vuoto di politica che noi gli abbiamo consegnato Grillo non lo occupa per il cambiamento, ma per il consenso fine a sé stesso. Si è posizionato come l’attinia sulla conchiglia del paguro e viaggia con esso in sù e in giù, senza ben sapere dove. Possiamo farlo scendere dal paguro? Si, certo, possiamo. Se mettiamo tra quel vuoto e la politica i nostri ideali (ideali, non partiti, quelli vengono dopo), senza cercare ogni volta altre scappatoie.

 

Commenti

  • paola geymonat

    Sì, certo, potreste. Ma quanto tempo ancora dobbiamo concedere? Gli ideali, mi dispiace, sono finiti…

  • Valeria

    Sono finiti grazie a questo senso di disfattismo.non sono finiti, sono scuse.

  • david

    gli ideali non sono finiti è scarso il coraggio con cui li portiamo avanti.