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Mercoledì, 30 aprile 2014

In morte di un poliziotto

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C’è poliziotto e poliziotto, vale la pena ricordarlo oggi chiudendo sdegnati la pagina del giornale un attimo dopo averla aperta. Già il titolo ti gela il sangue, continuare è solo farsi del male. C’è poliziotto e poliziotto come c’è una storia e ce n’è un’altra, un’altra che trovi rovesciando la prima nel suo contrario. C’è persona e persona e può capitare che le persone, mettendosi insieme diventino comunità, oppure branco.

Roberto Mancini è un poliziotto, commissario di polizia, ed è una persona che fa molte cose da solo e dunque, già per questo, controcorrente. Un giorno di diversi anni fa sale su un elicottero e sorvola la terra di Gomorra, la sorvola palmo a palmo. Lo accompagna Carmine Schiavone, pentito di mafia e collaboratore di giustizia, e da lui si fa guidare da una cava all’altra. Il poliziotto annota tutto di quel viaggio, percorsi, strade, depositi, anfratti dove sono stati nascosti i veleni. E quando scende a terra ha già una mappa precisa che gli balza all’occhio. Qualcosa di profondo che chiama in causa la storia e la geografia del nostro Paese, dal Sud al Nord, dei suoi gruppi industriali, della politica come delle istituzioni, delle organizzazioni criminali e delle ecomafie. Come se quel breve viaggio in elicottero avesse tracciato la radiografia delle condizioni vere dell’Italia, mettendone a nudo il suo scheletro rattrappito.

Leggerla significa capire dal fondo come funziona da tempo l’economia, il suo intreccio con la politica e con la criminalità, cosa comporta realmente produrre quel che si produce e come, infine, tutto questo precipiti, da anni, nella salute dei cittadini che vivono su quel vasto territorio, ne respirano l’aria che si fa diossina, si nutrono dei cibi alterati che in quella terra malata si coltivano. Nei mesi e negli anni che seguono il poliziotto Roberto Mancini visita quei luoghi uno a uno. Da vicino, troppo vicino. Entra nelle discariche abusive che aveva visto dal cielo, visita le miniere di sale in Germania, ispeziona i bidoni tossici dentro i quali le maggiori imprese italiane, ma anche tedesche e di altri gruppi europei, avevano dissepolto i veleni, scorie del loro gigantesco profitto spartito negli intrecci societari e negli accordi di cartello stipulati davanti a un drink con i capi delle ecomafie in qualche salotto buono del nord o della Capitale. Si mette in viaggio sulle stesse strade battute dai tir carichi di peste che vanno da nord a sud e finiscono tutte lì, tra Campania e Lazio, a ridosso di quel mare dove andiamo ignari a godere l’illusione di uno scampo di sole, di un bagno rinfrescante. E infine il poliziotto Roberto Mancini scrive.

Scrive quel che ha visto, toccato con mano da vicino, troppo vicino. Quando finisce la sua informativa di 250 pagine e la consegna alle cosiddette autorità superiori, è il 1996. Resterà lì, chiusa per anni nei cassetti. Anni nei quali quel traffico continua incessante a mescolare profitti e veleni che si alimentano l’uno con l’altro. Poi un giorno il poliziotto Roberto Mancini si ammala, seriamente e senza via di scampo. Ci si ammala per tante ragioni, ma la ragione per cui si ammala il poliziotto Roberto Mancini, così certificano i medici, è del tutto legata alla sua professione, è la malattia di una contaminazione per aver visto e frequentato quei veleni da vicino, troppo vicino. Lo Stato, tardivamente generoso e magnanimo, ne riconoscerà la causa e lo risarcirà di conseguenza con l’importo che merita un suo servitore solitario: 5 mila euro in tutto, neppure bastanti per recarsi di tanto in tanto a Perugia nel tentativo vano di curarsi.

Il poliziotto Roberto Mancini è morto lontano da Rimini, qualche ora dopo l’applauso gaudente di altri poliziotti che anche con quel gesto hanno rinunciato ad essere persone, persone che formano una comunità, per identificarsi in un branco. Ma c’è poliziotto e poliziotto, c’è una storia e ce n’è un’altra, che trovi solo rovesciando la prima nel suo contrario. Il poliziotto Roberto Mancini l’ha scritta, noi non smettiamo di leggerla.

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