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Giovedì, 12 giugno 2014

Iraq senza pace e il lascito della guerra inutile

isis

I miliziani antiregime dell’Isis hanno conquistato la città di Tikrit e stanno rapidamente muovendo la loro offensiva in direzione di Baghdad, il cuore del Paese. Il Pentagono ha cominciato a considerare una ripresa dei raid aerei, con l’invio di droni, mentre la nuova violenta crisi in Iraq sarà oggetto di una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Un film che si ripete, una catastrofe più volte annunciata che più volte è ritornata. Questa l’attualità, che vede tra i protagonisti un governo debole e impotente, che ha cercato un suo ubi consistam reclamando più volte per bocca del primo ministro Nouri al-Maliki la sua autonomia dagli Usa e ha rapporti tesi con Washington per vicende legate all’assegnazione di concessioni petrolifere. Petrolio, ovviamente, componente essenziale di un vicenda infinita.

Le armi di distruzione di massa. Questa fu la narrazione meticolosamente costruita e rimbalzata in tutto il mondo per legittimare l’intervento. Le armi di distruzione di massa e la sicurezza del mondo: una verità presentata come autonoma e inconfutabile. Come spiegava un consigliere di Bush, rivolto a Ron Suskind, del New York Times: “La gente come lei vive in quella che noi chiamiamo la comunità basata sulla realtà”. Dove ci si illude “che le soluzioni emergano dal giudizioso studio di una realtà comprensibile. Oggi il mondo non funziona più così. Noi siamo un impero. E mentre agiamo, creiamo la nostra realtà. E mentre voi giudiziosamente studiate quella realtà, noi agiamo di nuovo, producendo nuove realtà, che voi potrete studiare. Noi siamo gli attori della storia. E a voi, a tutti voi, resta di studiarla”.

In realtà si trattava di una messa in scena di una tale rozzezza che chiunque avrebbe potuto capirlo e molti per altro lo capirono. Il regime di Saddam Hussein semplicemente non possedeva armi di distruzione di massa. Lo dissero gli ispettori dell’Onu andati a controllare direttamente sul campo lo stato delle cose ma vennero sbeffeggiati. E con facilità abboccarono al mantra narrativo vari uomini di stato e di governo che si misero in fila nella “coalizione dei volenterosi” a sostegno della guerra di Bush. Anche l’Italia di Berlusconi, fece la sua parte, pagandone anche un prezzo salato a Nassiriya.

Gli Stati Uniti se ne sono andati dall’Iraq nel 2011 lasciando sul terreno una sola realtà: quella delle macerie della loro avventura bellica. La guerra civile, violenta e crudele come sono sempre queste guerre, non è mai cessata in Iraq, contrapponendo soprattutto i Sunniti del nord, ex pilastro del regime di Saddam Hussein, al nuovo regime di Baghdad, voluto dagli Stati Uniti e sostenuto oggi mediamente da tutte le componenti della popolazione ma in particolare dagli Sciiti, che sono prevalenti al Sud e ai tempi di Saddam Hussein costituivano la parte più ostile al regime anche perché quella più crudelmente vessata. Nei disastri lasciati dalla guerra, la penetrazione dell’ideologia qaedista si è diffusa come un virus – ci sono gli effetti della guerra in Afghanistan dietro tutti questi disastri – e l’avanzata dei miliziani “jihadisti” del cosiddetto Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), come i miliziani hanno denominato il territorio da loro conquistato, non è stata mai né respinta né circoscritta. La debolezza strutturale del governo in carica di Maliki è infatti uno dei tratti distintivi, del regime “democratico” lasciato in eredità dagli Usa.

In questi giorni lo scontro è divampato con nuovi effetti dirompenti e le cronache ci informano che sono cadute nelle mani “jihadiste” città importanti di quella zona: Mosul innanzitutto, la seconda città dell’Iraq, con la conseguenza dell’ennesimo disastro umano e sociale rappresentato dalle migliaia e migliaia di famiglie in fuga con creature al seguito.

Negli ultimi anni i miliziani dell’Isis hanno esteso la loro azione con intenzioni transnazionali – il “Grande Califfato” annunciato da Bin Laden nelle sue visionarie elucubrazioni strategiche – dando vita a un mini-Califfato che si estende lungo le rive dell’Eufrate, in Siria e in Iraq. In Siria l’Isis controlla Raqqa, l’unico capoluogo di provincia sottratto alle forze siriane fedeli al regime di Assad. E anche vaste zone della provincia orientale siriana di Deyr ar Zor sono sotto controllo dell’Isis, che in Iraq controlla direttamente l’importante provincia di Al Anbar e ha totalmente nelle sue mani, dall’inizio di quest’anno, la città di Falluja, a sessanta chilometri da Baghdad. Baghdad è sempre più chiaramente il loro obiettivo.

Si evidenzia il gioco perverso di un intreccio di convergenze tra forze fondamentaliste la cui azione, in nome della comune ideologia, travalica i confini e mette sotto scacco il destino di intere popolazioni abbandonate a se stesse. Mosul e l’intera provincia di Ninive di cui Mosul è capoluogo, aree importanti della provincia di Kirkuk, e via verso sud, con la conquista della città di Ash Sharqat, nella provincia Salahuddin.

Il 2 maggio del 2003 il presidente George W. Bush, a bordo della portaerei Lincoln, annunciò la vittoria americana contro il regime di Saddam Hussein, assicurando che gli Usa avrebbero lasciato un Iraq libero, democratico e ricostruito. Il terrorismo, disse ancora Bush, sarebbe stato definitivamente sgominato. L’Iraq era solo una tappa della grande missione che il presidente del Nuovo Ordine Mondiale aveva assegnato alla potenza americana. Le cose andarono in direzione opposta, la scenografia in tutto degna di un film ispirato all’epica bellica, allestita per dare una degna cornice all’annuncio presidenziale, si rivelò nel giro di un mattino un fondale di cartapesta. La presenza degli Stati Uniti in Iraq, con terribili conseguenze di ogni è andata avanti fino al 2010, e l’eredità è quella che i fatti accaduti in questi giorni riportano sulla scena.

Presidi di sicurezza lasciati sul territorio dal Pentagono, contractors a disposizione, addestramenti fatti da esperti militari statunitensi a vantaggio delle forze di sicurezza irachene, niente è servito, come a niente serviva la massiccia presenza di marines. L’imbroglio globale di quella guerra continua a produrre i suoi frutti avvelenati.

Vale per altro ricordare – visto che dovremmo cercare di ragionare soprattutto dal punto di vista della politica europea, la totale mancanza di un’idea di politica estera e internazionale dell’Ue, la completa assenza di qualsiasi impegno a costruire punti di vista e azioni condivise per far crescere l’Europa come un soggetto riconoscibile in quanto tale nel mondo. Le scelte divaricanti, contrastanti, di interesse nazionale. L’Iraq di oggi ci ricorda anche questo, che un’Europa politica, di pace e di sapienza diplomatica, è tutt’altro che a portata di mano

 

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