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Lunedì, 14 dicembre 2015

La Leopolda di Firenze, tutto uguale a tutto e tutto nelle mani del leader

Italian PM Renzi at convention 'Leopolda'

Mentre alla Leopolda, come in una corte rinascimentale o, se volete, come in una performance fashion pop dei nostri giorni, si riuniva la nuova classe dirigente italiana o, se volete, il codazzo di seguaci della prima e ultima ora di Matteo Renzi – quelli e quelle, detto non per inciso, nelle cui mani sono le sorti del nostro Paese – in qualche posto di Roma si dava appuntamento la parte dem dello stesso partito. Rappresentarsi per esistere, dire qualcosa per non essere dimenticati, raccontare cose non vere o camuffamenti sulle cose, per guadagnare tempo e sopravvivere. Poi si vedrà, qualche dio forse interverrà a ridare ordine alle cose. Non si discosta da qui, da questi calcoli di inesistente portata, il mean streaming sentimentale dei sopravvissuti della sinistra novecentesca italiana, incapaci di spostarsi da loro stessi, dai loro rituali, le loro suggestioni identitarie, le loro paranoie. E le loro ormai strutturali inadeguatezze politiche, a partire da quella che li rende incapaci di avere occhi e orecchie per misurarsi col presente.

La Leopolda di quest’anno doveva sancire definitivamente e consacrare quello che già nei fatti è evidente e indiscutibile. Il partito di Renzi è un’altra cosa rispetto al Pd – non ci sono bandiere alla Leopolda – ma sono stampate nel cuore, assicura il leader – chissà se mai ce ne sarà un’altra e di che tipo – e il Partito della nazione coincide, come partito del premier, con l’oggetto del desiderio renziano: Pn/Pdn o altro ancora, al prossimo congresso, o anche prima, visto il carattere che può diventare improvvisamente predatorio delle decisioni di Renzi. Un partito così nominato – nel nome della nazione e per voce del leader –realizza e mette in scena, con adeguati trucchi estetici per renderlo meno indigesto, il top delle aspirazioni innovatrici del premier, cioè la caduta delle residuali e da molto tempo ormai non più stagne paratie tra destra e sinistra.

E’ il mantra dominante ma, soprattutto, è la prassi costituens del premier, che non si perita di azzardare alla Leopolda che la stampa deve darsi una regolata e che il troppo delle critiche è il troppo.Una caduta di stile? No, il fondo ademocratico e per questo autoritario della politica alla Renzi. La nazione e il suo leader in amorosa osmosi, altrimenti che partito della nazione è? Altrimenti tutto rimane uguale a prima. Ma in realtà tutto rimane uguale al format leopoldino dell’inizio, non ci sono grandi novità di personaggi nel parterre plaudente, non ci sono nuove idee. C’è invece una questione democratica grande come un grattacielo, che si manifesta e di cui nessuno si preoccupa. La alimenta la partita intorno alla legge costituzionale, che si è consumata in un crescente suo confinamento entro il perimetro parlamentare e di ristrette cerchie di addetti ai lavori, lasciando tracce esigue o inesistenti nel dibattito pubblico e nell’attenzione di chi dovrà andare a votare il referendum costituzionale. Ovviamente nessuno alla Leopolda ne ha parlato. E alimenta l’idea che Renzi ha del partito, che al d là di come lui vorrà chiamarlo, è conforme a una concezione e a una pratica dell’indifferenziato in politica e dell’inutilità del conflitto e della sfida democratica. Lui, come d’altra parte la sinistra che si è convertita da tempo al neoliberismo, la chiama “buona politica”, cioè stare alle regole, ai vincoli, ai diktat e navigare a vista per garantirsi il consenso. Politica priva ormai della politica, dove tutto uguale a tutto e tutto nelle mani del leader. Oppure, di contro, malcontento, rancore, demagogia.

La Leopolda è quello che Renzi ha in testa. Ed è stato in particolare il regno di Maria Elena Boschi. La ministra for president, segretaria del partito o chissà che: può fare tutto come tutto in realtà possono fare le nuove élites selezionate alla Leopolda, basta che siano invitate personalmente ad andare e basta che il selezionatore sia lui, il premier segretario. Ma Maria Elena è ormai top che più top non si può. La Leopolda allora come cassa di risonanza della sua performance. Maria Elena Boschi: al cui nome sarà associato, se mai dovesse essere confermato in via referendaria, lo stravolgimento della carta costituzionale, il pasticciaccio brutto intorno a cui si è consumato l’ultimo assalto alla traballante diligenza dell’ordinamento democratico del nostro Paese. Ma questo la ministra doveva fare e l’ha fatto alla grande.

E anche per questo la Leopolda è stata il regno di Maria Elena Boschi, che parla delle sue sofferenze per gli attacchi subiti per l’affaire banche e per suo padre, che di una banca è stato vice presidente per otto mesi. Ma non cita le sofferenze altrui e parla accuratamente d’altro, tra gli applausi e gli incoraggiamenti di chi la ama. E’ lo stile sovrano, lasciar correre le cose fastidiose, non mescolarsi alle chiacchiere di basso rango, volare alto sul radioso futuro che aspetta l’Italia. Lei ci si è esercitata alla grande sul tema – “quello che vogliono gli italiani” – e torna a farlo dal palco. Bella e didascalica e anche “tosta”, come sempre, in uno scenario “al maschile” come di nuovo sta succedendo troppo spesso un po’ ovunque. Un format, quello di Boschi, vincente per donne – chi ci riesce – e uomini, da imitare nella corsa a essere prescelti nelle cariche istituzionali e di partito della prossima fase, compresi i cento nomi sicuri alle politiche del 2018 o quando sarà. Tutti con lei, ovviamente, tra applausi baci e abbracci, tutti infastiditi per le critiche, tutti in un’unica squadra sotto la protezione di Renzi, che dice con durezza che l’obiettivo della campagna sulle banche è lui. Ma il suo intervento di chiusura della Leopolda denota alla fine che qualcosa della magica atmosfera che il richiamo a quell’appuntamento produceva negli anni scorsi forse non funziona più. Si vedrà. Intanto tutti per uno o una, uno per tutti. Finché va.

Se le cose stanno così, lo spettacolo che l’altro Pd offre di se stesso è imbarazzante. Soprattutto dopo le prove penose che quasi tutti gli esponenti di questo Pd hanno dato in questi due anni, in occasioni decisive della vita parlamentare. Occasioni numerose e di prima importanza. Prove della loro inesistenza e prove del progetto renziano che è passato ovunque proprio per questa inesistenza politica. Prove di un’arrendevolezza fuori misura e fuori senso. La rotta di Renzi è sbagliata, dicono dalla location romana, ma loro restano. Una follia il partito della nazione, dichiarano, ma loro non se ne vanno, lo spirito dell’Ulivo- chissà qual è ormai – non può essere archiviato, spiegano. E così via, alla ricerca di un ubi consistam per non morire. Forse scommettono sul congresso del Pd, in programma nel 2017. Ma chissà che sarà allora del Pd.

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