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Giovedì, 14 maggio 2015

Libia e l’opzione militare. Il tutto senza informare in Parlamento

Mideast Libya

L’Italia ha acceso la miccia dell’intervento in Libia. Ha lasciato che l’emergenza umanitaria degli sbarchi assumesse via via la faccia dell’ossessione securitaria e si nutrisse dell’esigenza, mediaticamente reiterata in tutte le salse, che l’Europa nel suo complesso si facesse carico del problema. Ha fatto leva sulle preoccupazioni europee, variamente alimentate, di possibili collusioni tra gli Islamici del gruppo libico di Alba – quelli del governo di Tripoli – e gli jihadisti dello Stato Islamico insediatisi in alcune località della costa, e ha dato la sua disponibilità a svolgere un ruolo di primo piano nell’impresa.

Lo sta facendo senza informare né ascoltare il Parlamento, senza nessuna autorizzazione neanche da parte delle Commissioni competenti di Camera e Senato, senza nessuna preventiva informazione fornita ai “rappresentanti del popolo” che non sia quella che viene dal circo mediatico.

Un’antica pillola di saggezza in lingua latina diceva che gli dei tolgono la ragione a quelli che vogliono rovinare. Mi pare che facciamo parte dell’album di famiglia dei dissennati.

Così siamo arrivati alla messa a punto in sede europea, e nella richiesta di approvazione dell’Europa all’Onu, di un piano contro il traffico di umani  che ha i caratteri di un vero e proprio intervento militare. Il generale Fabio Mini scrive oggi su Repubblica che un tale intervento potrà avere dei costi, comportare rischi collaterali. Tanto più che nessuna delle più o meno legittime autorità libiche ha dichiarato di essere d’accordo con l’operazione.

La Libia è ormai un immenso spazio frammentato, squassato da violenti scontri tra tribù, conteso da milizie, contrabbandieri, banditi di varia provenienza, considerato luogo adatto al business criminale, che non a caso impegna una vasta galassia di esperti del mestiere, e terreno di interesse geostrategico in senso lato da vari attori statuali esterni. in primis la coppia Egitto-Emirati che sta con Tobruk. Ma non sono solo loro a tessere legami col caos libico. La Turchia guarda a Tripoli, come in un risiko aperto a tutte le varianti del gioco incrociato dei poteri.

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Territorio frammentato e Stato in dissoluzione, con due governi e due parlamenti formatisi in seguito alle elezioni di un anno fa, che sono servite soltanto a moltiplicare gli elementi di crisi, spaccando il Paese tra la parte ovest in mano ai gruppi islamici, con Tripoli come capitale, e la parte est in mano ai gruppi che in Cirenaica combatterono Gheddafi, e ora operano tra le due città di al-Bayda’ e Tobruk. L’esecutivo di questo secondo governo, nelle mani di Abdullah a-Tinni, riconosciuto dall’Occidente perché “laico”, riceve protezione politica e assistenza militare dall’Egitto del generale al-Sisi che con al-Tinni condivide la lotta contro tutto ciò che abbia a che vedere col fondamentalismo, e anche per questa via intende evitare che avvengano infiltrazioni in Egitto. Renzi ha stretto legami con al-Sisi fin dalla grande convention affaristica dell’Egitto svoltasi nell’autunno scorso a Sharm elSheikh, alla quale Renzi partecipò con grande entusiasmo. Unico premier europeo.

Nel territorio di Tobruk agisce in proprio anche il generale Halifa Haftar, già al seguito del regime di Gheddafi e poi in contrasto con lui. Haftar guida l’Operazione Dignità contro gli islamisti.

Il caos favorisce anche il brand mediatico e operativo dello Stato islamico, che dall’autunno scorso ha conosciuto un’impennata di seguaci soprattutto per il ritorno di  molti jihadisti libici che erano andati a combattere per il Califfato in Siria e in Iraq, e per l’adesione di altri gruppi locali, spesso personaggi e giovani sbandati alla ricerca di un modo per sopravvivere e di una identità. Di conseguenza il vessillo nero è stato issato in varie località della costa e vari attacchi sono stati condotti in questi mesi contro il governo di Tobruk  e varie installazioni petrolifere.

E’ in questo crocevia del caos – di cui fino ad oggi l’Europa si è ufficialmente disinteressata e in cui vanamente l’Onu, col suo emissario Bernardino Leòn, cerca di trovare la via del dialogo e della pacificazione – che si riversano masse di uomini e donne in fuga dalle guerre, di cui l’Occidente è stato spesso attore e agente in prima persona,  dalle persecuzioni, dai massacri, dalla perdita di ogni vincolo di appartenenza. Mescolandosi ai migranti che cercano scampo alla miseria.

Ed è sul drammatico problema della trasmigrazione di gruppi umani senza più terra, un problema ormai storico e strutturale, frutto dell’intreccio di macro processi che stanno cambiando radicalmente la geopolitica di questa parte di mondo e il destino umano di milioni di persone, che si è innescata in Italia l’ossessione dello straniero che viene per ordire l’agguato terroristico, occupare gli spazi vitali, mangiare a sbafo. Salvini ci ha messo del suo. Ma in molti lo hanno favorito.

Come affrontare manu militari il problema degli scafisti, ristabilendo con la forza l’ordine sul mare e sulle coste libiche, è stato l’argomento cult dei talk show per intere settimane, con gli esperti e i non esperti a dirne di tuti i colori. E con Renzi che si è fatto sentire robustamente a Bruxelles perché l’Italia non sia lasciata sola.

E non è stata lasciata sola. Il Comitato militare dell’Ue ha elaborato il suo “Concetto per la gestione della crisi”, denominandolo con l’acronimo Cmc. E’ la struttura che coordinerà l’azione antiscafisti in Libia, una volta avuto il via libera dell’Onu. Se mai ci sarà, questa autorizzazione, perché perplessità sull’operazione sono già state espresse da parte della Russia e della Cina. Ma spesso, come più volte è accaduto, l’Onu interviene dopo, per cercare di rimettere a posto gli effetti nefasti delle operazioni di guerra. Vedremo. L’Onu non è più in grado di dare risposte e trovare soluzioni “terze” rispetto all’implosione degli assetti di parti importanti del mondo.

La bozza del Cmc passerà nei prossimi giorni al vaglio dei ministri degli Esteri Ue che dovranno valutarne il contenuto. Si tratta di un testo di per sé chiaro e inequivocabile: l’obiettivo tattico dichiarato è quello di “catturare e/o distruggere le strutture che consentono il contrabbando, nelle acque libiche, stando in mare all’ancora o attraccate a terra”.

Con questo testo siamo a un vero e proprio salto di qualità rispetto alle varie opzioni che si erano susseguite nel forsennato dibattito italiano sull’emergenza “esplosiva”, creata dai profughi dal mare. Siamo infatti passati dalla sola distruzione dei barconi degli scafisti – il come per altro era rimasto sempre confuso – a quella delle strutture di terra, dall’attracco in mare delle barche a quello sulla terraferma; da un’azione di controllo e contenimento in mare all’interventismo sulla costa per l’azione di corpi militari. L’obiettivo sembra essere di rendere inagibile il territorio e la cosa fa pensare al dibattito che si svolse ai tempi dell’intervento contro la Libia di Gheddafi. La questione era l’interdizione al volo degli aerei militari del rais, col fine dichiarato di proteggere i civili. In realtà, perché questo avvenisse si cominciò a bombardare le strutture che rendevano possibile il decollo degli aerei, strade, aeroporti, centrali elettriche, depositi di carburante. La no fly zone, sottolinea Francesco Martone in una sua nota su Facebook, divenne così il cavallo di Troia per un intervento militare vero e proprio. “Oggi non ci saranno aerei, ma navi, non missili di precisione, ma incursori, ma il senso resta. Non una no-fly zone ma una no-sail zone, che rischia di aprire la strada ad un intervento militare vero e proprio”. Forse senza scarponi piantati direttamente sul suolo – i generali del Pentagono dicono che solo così si può vincere – ma con la permanente presenza di un apparato “dual use” di “soccorso e anche di combattimento.

L’Italia ha mosso le carte dell’ossessione securitaria in un contesto in cui gli appetiti del business criminale e delle élites militari arabe intorno alle  spoglie della Libia si vanno moltiplicando, mentre le manovre geopolitiche si intrecciano da varie parti. Con un ruolo centrale dell’Egitto che forse pensa – così trapela tra gli analisti più informati – a una grande coalizione pan-araba con il sostegno della Francia e dell’Italia per porre fine alla diffusa presenza delle fratellanze musulmane.

Il Cmc apre la strada? Sicuramente non la ostacolerà e potrà assicurare un ruolo di primo piano all’Italia nella conduzione delle operazioni, con l’attribuzione per esempio, del comando militare della flotta europea.

Insomma à la guerre comme à la guerre?  E le conseguenze in Italia dell’incendio che stiamo appiccando, dopo aver partecipato a estendere il primo? E con la nostra storia coloniale in quelle terre? E anche con gli interessi italiani là radicati, soprattutto in quella Tripolitania in mano alla parte più invisa all’Occidente? E il dovere del fare i conti storicamente con un fenomeno – quello delle migrazioni – che fa ormai parte intrinsecamente della contemporaneità, con cui dovremo imparare convivere da qui a chissà quando?

Lo dice chiaramente l’Alta rappresentante dell’Ue per la Politica estera e di sicurezza (Pesc) Federica Mogherini che in sede Onu si è presentata con un memorandum quanto mai emblematico: tra i punti c’è infatti il riferimento al Capitolo VII della Carta dell’Onu, per la precisione all’articolo 42 di quel capitolo, che prevede  che se il Consiglio di Sicurezza ritiene che “le misure previste nell’articolo 41 siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite”.

Non c’è né l’autorizzazione né  l’avallo del Parlamento a tutto questo. In compenso c’è o ci sarà la benedizione del Consiglio supremo della Difesa. La democrazia decidente ha bisogno di nuovi istituzioni all’altezza.

E Mattarella?

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