L’Unione europea in crisi esistenziale
L’Europa è in crisi esistenziale. Questo ha detto Jean Claude Juncker, presidente della Commissione europea , nel suo discorso annuale a Strasburgo sullo stato dell’Unione. L’espressione è forse inusuale per un personaggio come Juncker ma sintomatica. E’successo alla vigilia del complicato vertice informale di Bratislava svoltosi in questi giorni. Complicato e complesso, fin da molto prima della vigilia perché convocato all’indomani del trauma del “no” britannico al referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Ue, e per rispondere ai venti di dissoluzione che inquietano le istituzioni europee. Ricomporre i contrasti, ritrovare l’unità, rilanciare l’Unione su temi concreti: questo si era augurato il presidente della Commissione nel suo discorso della vigilia, esercitandosi a mettere in risalto, nonostante tutto, le possibilità che, a suo giudizio, ancora ci sono per rilanciare l’Unione e ridarle una prospettiva. Juncker – il ruolo istituzionale lo ha evidentemente indotto a cambiare un po’ pelle – ha alzato il tiro degli impegni comunitari, annunciando una serie di possibili nuove iniziative – dal raddoppio del Fondo per gli investimenti, al nuovo Fondo per gli investimenti strutturali “esterni” nei paesi d’origine e di transito dei migranti, accogliendo così la proposta italiana del “migration compact” e concependo l’idea di trasformare l’Alto rappresentante Pesc in un vero e proprio “ministro degli Esteri” dell’Ue, per questo spendendosi anche in lodi dell’italiana Federica Mogherini, che quella carica, ad oggi solo formale, riveste. Ma poiché ormai i problemi sono quelli che sono, e i contrasti e i dissidi durissimi, il vertice è inevitabilmente fallito e nulla è stato risolto né affrontato seriamente. Basta confrontare il discorso di Juncker, che difende il metodo comunitario e assegna alla Commissione la supremazia delle decisioni, con quello di Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, che vuole la supremazia del Consiglio. Tusk, che è polacco, sostiene soprattutto le note posizioni ostili dei Paesi dell’Est – il gruppo di Visegrad (Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia ) – e fa sapere che i governi non vogliono “più Europa” ma che l’iniziativa torni nelle capitali e la Commissione non pensi di avere un potere reale. E’ solo un organismo esecutivo a disposizione degli gli Stati.
Da Ventotene a Bratislava insomma: dalla parodica rievocazione della nobile e ardita Weltanschauung spinelliana, messa in scena con animi commossi sulla portaerei italiana, alla realtà dell’asse Germania Francia, resuscitato per concludere alla meno peggio il vertice di Bratislava. Una conferenza stampa di Hollande e Merkel senza Renzi, al quale non è stata fatta nessuna concessione né sull’immigrazione né sulla flessibilità di spesa. Lui, in una conferenza stampa a parte, ha avuto parole di critica, ha spiegato che le cose non vanno proprio bene, lui non vuole raccontare frottole ai suoi concittadini e i problemi bisogna affrontarli seriamente. Non poteva fare altrimenti, a questo punto, si potrebbe dire. Ma dal vertice hanno fatto sapere subito che la road map, redatta per il prossimo vertice, è stata approvata all’ unanimità dai 27 e d’altra parte è cosa nota che quello che Renzi dice è soprattutto un gioco in commedia e l’ennesima giravolta è sempre dietro l’angolo. A braccetto con Merkel e Hollande sulla portaerei e poi in solitaria conferenza stampa, critico e impaziente di farsi sentire in chiave di dissenso europeo, per non perdere punti di fronte alle incombenze nazionali, legge di stabilità e soprattutto referendum costituzionale.
Di tutto quello che a Bratislava non è stato risolto si riparlerà nel prossimo summit, convocato per dicembre. Il rinvio è la chiave di volta di un’Unione che perde per strada le sue ragioni di stare insieme, non avendo mai cercato davvero di costruire politicamente l’Europa. Bisogna ritornare alle ragioni vere ed essenziali, alla visione e all’ “anima” del progetto europeo, aveva detto Juncker alla vigilia di Bratislava. Ma è la finanza, sono mercati e l’ austerità neoliberista l’anima nera dell’Europa, non c’è davvero altro dietro la retorica. E la vicenda dei profughi ne è la plastica e tragica messa in scena.
Crisi esistenziale allora. Di che parla Juncker? Può succedere, anzi spesso succede in questa epoca di crisi, che anche i personaggi più tenacemente legati al potere – e al proprio ruolo di potere – siano all’improvviso attraversati da uno scombussolamento sentimentale, da un guizzo dell’intelligenza critica o qualcosa insomma che li costringe a fare i conti con la realtà. O forse è il timore di un rischio di catastrofe che avvertono, li riguarda, e sanno di non essere in grado di contrastarla. E’ il caso della frase pronunciata del capo della Commissione circa la crisi esistenziale dell’Europa. Sempre più stretto, Juncker, in un’istituzione di cui è presidente e che dovrebbe svolgere il ruolo – nel complesso edificio istituzionale dell’Unione europea – di esecutivo e anche di luogo di elaborazione e proposizione di leggi, ed è invece ormai svuotata dalla presenza del Consiglio europeo, dove si riuniscono i capi di Stato e di Governo. Un organismo che dovrebbe essere luogo di scambio e suggerimenti dei governi rispetto all’Unione e invece sempre più è proprio là che ci si mette d’accordo oppure no sulle questioni di fondo, si accolgono o si rifiutano o si procrastinano le indicazioni della Commissione – esemplare il caso delle quote dei migranti da distribuire in ogni Paese – su cui l’Ungheria dell’iper nazionalista Orban ha convocato un referendum, di prossima attuazione, per conoscere come la pensino i suoi concittadini sulla distribuzione delle quote di migranti. Ed è in sede di Consiglio che ognuno si autorizza ad alzare i muri che vuole per proteggere il proprio territorio. Gli Stati nazionali – entità date per morte – tornano con la faccia cattiva e respingente della loro peggiore autoreferenzialità novecentesca: quella dei nazionalismi, delle invalicabili linee di frontiera, del respingimento del “diverso”, dei muri.
Tutti i capi di Stato e di governo che là convergono, soprattutto in occasione dei summit, si contendono l’ultima parola sulle decisioni che per loro veramente contano – per loro, per il loro destino personale – per restare in sella, per rispondere in qualche modo a disagi sociali spesso assillanti, rancori popolari ormai accumulati, torsioni nazionaliste sempre più preoccupanti, che di nuovo aleggiano come fantasmi dell’opera sull’Europa in crisi esistenziale.
L’uomo europeo – e neanche in verità il cittadino europeo – è mai venuto veramente alla luce. Gli europeisti, uomini e donne, appartengono a un’altra categoria, a una fattispecie di antropologia umana che si è formata ed è cresciuta sull’onda di un breve e felice periodo della storia Europea più recente, rimanendo però sempre alla superficie di tutto quello che maturava intanto dentro la società, nelle sue viscere. Lo stupore di una parte di londinesi, uomini e donne, di fronte ai risultati del referendum d’addio del Regno Unito all’Unione, il rimpianto e il senso di colpa di molti e molte per non aver capito in tempo che era il caso di andare a votare, mette in evidenza tutto questo, disegnando l’identikit di persone per lo più giovani, cosmopolite, colte, economicamente al sicuro o almeno non assillate immediatamente dalle urgenze della vita. E poi i più giovani, forse quelli più autenticamente europei, nel senso almeno di essersi pensati, fin da adolescenti, sentimentalmente legati a un’Europa senza frontiere, generazione Erasmus, la parte della popolazione che dovrebbe essere considerata un bene grande dell’Europa, ma è spesso precarizzata, spesso senza sicurezza del proprio futuro, a cui né l’Europa dei trattati e dell’ortodossia neoliberista né i governi nazionali succubi di quell’Europa, hanno voluto mostrare la possibilità di un’azione politica per fare dell’Europa una realtà politica, democratica, solidale, accogliente. all’altezza delle sfide della contemporaneità. Europa dei popoli, non della finanza.
La crisi esistenziale evocata da Juncker è allora lo specchio in cui si riflette e che insieme mette in chiaro questa Europa in crisi, l’inquieto mondo umano che la abita. Crisi del senso di sé che assale le persone, ansia e paura del futuro, infelicità, polverizzazione virale delle relazioni umane e assenza di riferimenti che diano almeno un ordine logico e una risposta alle cose che succedono a tutti i livelli. Ci decide, dove e che cosa si decide veramente? Il mondo globale e globalizzato sposta sempre altrove il dove si prendono le decisioni che contano e incidono sulla vita di tutti. E questo non sapere crea non di rado frustrazione, rancore, spaesamento. Anche i peggiori tiranni e i pessimi re si mostravano e si sapeva dove abitavano. La democrazia rappresentativa e il sistema dei partiti, quando i partiti erano o almeno apparivano tali e non quello che sono diventati, davano risposte ai problemi della vita, offrivano sicurezza esistenziale, almeno l’idea di un ubi consistam di senso. Ora i demagoghi spuntano come funghi da tutte le parti, facendo leva sulla paura e annunciando come l’Angelo della morte la fine della “nostra civiltà”. E cresce l’ansia per la sicurezza. Come non essere infelici? Tutto insomma concorre alla crisi esistenziale come stato latente, che in certi momenti esplode. L’analisi per capire un po’ meglio lo Stato dell’Unione si può prendere proficuamente anche da questo lato e forse molte cose si capirebbero meglio se la vita delle persone fosse il punto di vista per capire.
Problema di primo piano – l’Unione in crisi, compresa la crisi esistenziale che ne fa intrinsecamente parte – per chi, come Sinistra italiana, ha voglia di rimettere in piedi una sinistra in grado di misurarsi, intanto, con i problemi della contemporaneità.