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Martedì, 25 febbraio 2014

Renzi chiude il Ministero della Coesione territoriale e non è solo una dimenticanza

coesione

Nessuno si diverte a far le pulci ad un Governo che si appresta ad affrontare sfide importanti: il giudizio va dato complessivamente, e per quel che mi riguarda sarà negativo. Tuttavia, staremo a vedere come si concilierà la carica rottamatrice con la fatica di guidare un paese esausto, diseguale, diviso. Senza pregiudizi e senza rifuggire dal merito delle questioni.

A mio avviso, però, non può passare sottotraccia l’assenza di una postazione ministeriale che si occupi direttamente della coesione di un Paese che sempre di più va frantumandosi, e dove il dualismo territoriale si allarga in maniera inquietante secondo tutti gli indicatori economici, sempre più chiari nello spiegarci come il Sud uscirà dalla recessione più tardi e peggio di come vi era entrato. Insomma, se questa fosse una semplice dimenticanza sarebbe paradossalmente ancor più grave di una comunque clamorosa scelta premeditata; il Mezzogiorno scompare nei fatti dal radar del nuovo Governo Renzi: non ha meritato in questi mesi neanche un tweet, figuriamoci un Ministero!

Non si tratta di questioni formali. Si tratta della sostanza della politica economica degli ultimi vent’anni, di un’intera area del Paese che ha perso man mano peso fiscale, capacità produttiva e autonomia creditizia. La fine di una Banca autonoma del Mezzogiorno, com’era il Banco di Napoli, rappresenta ancora oggi un danno mai realmente sanato per un territorio dove l’accesso al credito è nei fatti negato a migliaia di imprese, così come potremmo dire lo stesso in merito al progressivo spostamento di asset industriali verso altre aree forti del Paese. Aggiungerei a tutto ciò i potenti processi migratori che hanno provocato nell’ultimo decennio un decremento demografico tale da privare il Sud di testa e braccia necessarie per impiantare una nuova stagione di crescita e sviluppo endogeno.

Perché il nodo del Mezzogiorno si chiama intervento pubblico, ed il superamento della frattura territoriale non può essere affidata ai corifei del mercato, né a chi immagina che i limiti dello sviluppo vadano attribuiti esclusivamente alla scarsità di capitale sociale diffuso. Le politiche di rigore degli ultimi anni hanno persino eroso il patto di cittadinanza, producendo fenomeni di impoverimento sempre più pervasivi e determinando una congestione verso il basso della mobilità sociale: il Sud si trasforma in una pentola a pressione, che può davvero scoppiare se ai fondi strutturali (spesi male, peraltro) non tornano ad associarsi risorse ordinarie che diano fiato ai Comuni. Perché la crisi profonda delle istituzioni locali e territoriali come punto di riferimento ultimo dello Stato aiuterebbe l’affermazione definitiva di quegli attori extralegali capaci di garantire pax sociale e forme di redistribuzione economica. Per questo parlare di un Governo con la testa al Centronord non è una semplice dichiarazione propagandistica, né tantomeno una rivendicazione localistica. È un modo di lanciare un allarme per l’oggi e per il domani.

Abbiamo avuto prima Barca, che aveva cominciato ad immaginare una nuova stagione di programmazione provando ad evitare di disperdere in mille rivoli i fondi strutturali, e poi Trigilia, meno capace di uscire da una dimensione accademica dell’approccio alle politiche di coesione, immaginando la istituzione di un’Agenzia unica dei fondi europei, limitando nei fatti il ruolo delle Regioni. Scuole di pensiero diverse, indubbiamente; ma almeno un dibattito negli ultimi due anni si è aperto, segnando qualche elemento di riflessione in più rispetto al recente passato e spazzando via i luoghi comuni cresciuti negli anni Novanta intorno ad una presunta e mai specificata questione settentrionale. Adesso niente: forse sarà immaginato un sottosegretario con delega alla coesione, costruito ad hoc per qualcuno battuto nel totoministri, ma il tema viene oggettivamente declassato, scompare dall’agenda delle priorità e finisce in soffitta. Chissà per quanti anni ancora…

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