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Martedì, 6 maggio 2014

Renzi proclama il vincitore della partita sul lavoro: è Sacconi

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Caso vuole che in questi giorni due fatti, due fatti che ci riguardano, vengano a coincidere. Il congresso della Cgil e l’approvazione del decreto sul lavoro voluto da Renzi. La Cgil ha 6 milioni di iscritti, Renzi è diventato segretario del suo partito in una domenica dove sono andati a votare quasi 3 milioni di cittadini e per lui si è espresso il 68% dei votanti, dunque all’incirca 1 milione e 800 mila democratici. La Cgil poi, come si sa, è un sindacato che coltiva la sua autonomia ma è fuori di dubbio che quando guarda alla politica si trova abbastanza vicina al partito di Renzi.

Il tema che ha messo al centro del suo congresso è esplicito: “il lavoro decide il futuro”. Come esplicito è il tema che su questo terreno impone Renzi al paese e che potremmo sintetizzare così: “il suo decreto decide cosa sarà d’ora in poi il lavoro”. Quale migliore occasione dunque per il capo del governo di fare una capatina a Rimini e misurarsi in un confronto aperto, nel quale ascoltare, dire, interloquire, confliggere se necessario. Invece non andrà. Nella sua tabellina postideologica il mondo viene diviso tra innovatori e conservatori e il sindacato è iscritto d’ufficio tra i secondi, mentre lui si autoproclama il capofila dei primi.

La sua energia cinetica posta al servizio del paese gli impone di non perdere tempo in inutili discussioni tra queste due parti e resta per noi un mistero come riesca a comunicare dentro il suo governo con Alfano e la nutrita pattuglia di esponenti politici della sua maggioranza che si proclamano, a loro volta, conservatori e, per giunta, di destra, mentre Renzi si ritiene innovatore ma guarda bene dal dirsi di sinistra. C’è più di qualcosa che non torna, ma fosse solo questo sarebbe il meno. Quel che conta è che si misurano, negli stessi giorni, due idee di fondo su una questione che, come il lavoro, riguarda le nostre vite e tra il sindacato e il governo non c’è alcun punto di contatto, figuriamoci d’intesa. E difatti il decreto che Renzi imporrà assai probabilmente con un voto di fiducia (altrimenti lascia, perché lui è stato legittimato da 1 milione e 800 mila cittadini: 4 milioni e 200 mila in meno dei lavoratori iscritti alla Cgil) va nella direzione esattamente opposta a quella indicata dal sindacato.

Il quale sindacato ha senz’altro i suoi ritardi e le sue responsabilità, persino tratti di conservazione che farebbe bene a scrollarsi di dosso, ma decidere sul tema del lavoro come se non ci fosse equivale a fare un passo indietro nella qualità della democrazia. Questa rappresentazione della politica italiana di oggi vista da Renzi come una guerra tra innovatori e conservatori (ha scritto recentemente su questo un commento alla riedizione del noto libro di Norberto Bobbio su “Destra e Sinistra”, demolendo in 50 sfumature di fuoco il Maestro della filosofia politica), tra chi va veloce e chi va piano, tra chi decide senza troppo discutere e chi vuole discutere prima di decidere, ha al fondo un difetto della cui gravità non ci siamo ancora del tutto resi conto: distoglie dal merito della specifica questione, dal momento che fare pur di fare prende ogni volta il sopravvento su quel che si sta facendo. Non è così con l’Italicum? Non è così sul Senato?

E’ così, ahinoi. Ed è così anche e soprattutto sul lavoro. Vediamolo, allora, il merito del decreto che Renzi impone, in fretta e senza discuterne col sindacato. Il cuore del decreto sta in una parola: esso stabilisce che un datore di lavoro è libero di fare un contratto a tempo determinato in maniera “acasuale”. Si fa una cosa e non si dice la causa per cui la si fa, più semplificazione di così! E questo per tre anni, con un limite massimo di 5 proroghe (inizialmente erano addirittura 8, negli altri paesi europei nei quali l’acausalità non è neppure pensata non sono mai più di 2). In più, mentre in tutta Europa, Germania in testa, vige un sistema duale del mercato del lavoro nel quale formazione del lavoratore e lavoro effettivo si compenetrano in quel che si chiama apprendistato (e il giovane lavoratore ti costa di meno proprio perché lo formi e investi su di lui per il futuro suo e dell’azienda), con questo decreto la dualità sparisce quasi del tutto. Ecco un’altra semplificazione renziana.

Adesso chiediamoci: cosa succede se il datore di lavoro infrange qualcuna delle improbabili norme che regoleranno, d’ora in poi, il lavoro in Italia? Beh, è evidente quel che succede: gli tocca una sanzione pesantissima che lo spaventa. Intanto dovrà stare in guardia dai controlli che nel nostro paese, come si sa, sono ferrei, costanti e soprattutto se li infrangi ti stroncano la carriera. Poi la pena pecuniaria è unica nel suo genere: pensate, è pari al 20% del salario di ogni singolo lavoratore. Il quale lavoratore, se ha un contratto a tempo determinato acausale, guadagnerà il 40% in meno di un altro a contratto a tempo indeterminato e il conto è già fatto.

Insomma, quel che d’ora in poi accadrà con questo decreto è più che chiaro: si faranno contratti di lavoro giornalieri come ai tempi del caporalato, qualora per sbaglio si incappasse in qualche controllo o non si paga o se si paga pur sempre ci si guadagna, i lavoratori non verranno formati dalle aziende (perché mai dovrebbero farlo se possono essere sostituiti?), non si passerà in nessun caso da un contratto a tempo determinato a uno a tempo indeterminato. Tutto questo succede nel mentre il ministro del lavoro Poletti viene mandato da Renzi in televisione a dire che bisogna creare lavoro stabile e far sì che quello precario costi di più di quello fisso.

Già che c’è parla di semplificazione proprio nel momento in cui il suo governo batte il record non solo europeo di ben 46 tipologie di contratto di lavoro. Cambiano i segretari nelle primarie di ogni fine anno, ma la schizofrenia politica di cui si è nutrito il partito democratico sin dalla culla (vi ricordate il Manifesto di Orvieto?) pare entrata definitivamente nel suo dna. Ed è un problema serio. E’ un problema perché laddove manca una cultura politica autonoma, si finisce per assumere quella altrui. E sul tema dei temi, il lavoro, la cultura di questo decreto renziano porta il nome di quello che negli ultimi dieci anni ha tentato di disegnare il modello italiano di mercato del lavoro: Maurizio Sacconi.

Esso consiste di tre parti: bassi salari, bassa produttività, massima flessibilità. Come se non giungesse, tardiva, persino la voce dell’OCSE (sostenitrice della prima ora della flessibilità) a dirci che in Italia non è la rigidità o il costo del lavoro che crea disoccupazione e che il decisivo problema con cui misurarsi è quello della domanda che non c’è e delle aziende italiane che non investono né in ricerca né in capitale umano, il vero punto strategico dove realizzare gli investimenti di chi sa vedere il futuro e andarci incontro. Anche se bisogna ammettere che, con questo decreto, Renzi è riuscito a compiere il suo primo vero capolavoro politico da che è sulla scena. Non discutendo con le parti sociali, bruciando i tempi, mandando il povero Poletti in televisione a parlar di astrattismo ha prodotto il massimo dell’innovazione. Mettendo nero su bianco nel decreto quei contenuti che abbiamo visto ha prodotto il massimo del conservatorismo.

 

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